In questo scorcio di 2024 il campo rock viene illuminato da due novità discografiche che difficilmente si potranno ignorare: Wild God di Nick Cave, il viaggio religioso e doloroso verso la gioia (nello stile del cantautore australiano) che ha anticipato di pochi giorni la pubblicazione di Luck and Strange il nuovo album dell’ex chitarrista dei Pink Floyd David Gilmour, dal 1968 co-regista dei successi epocali del gruppo di prog-rock inglese: “Il disco è scritto dal punto di vista dell’essere più vecchio: la mortalità è la costante (…) Io e mia moglie (Polly Samson, scrittrice e autrice di buona parte delle canzoni dell’album, ndr) abbiamo trascorso molto tempo durante e dopo il lockdown parlando e pensando a questo genere di cose”.



David Gilmour (classe 1946) entrò nel 1968 nella formazione ufficiale dei Pink Floyd sostituendo Syd Barrett ormai mentalmente “perso” tra droghe e acidi e non più affidabile e ha partecipato attivamente con l’impronta sonora della sua chitarra alla consacrazione mondiale della band inglese: dal progressive rock innovativo e un po’ cerebrale di album come Ummagumma e Atomic heart mother (quello con la mucca in copertina) continuando con gli eterni hits di classifica The dark side of the Moon e Wish you were here, subendo il deprimente nichilismo estremo di Roger Waters in The wall (acuendone il dualismo artistico e caratteriale) e traghettando lentamente (con l’uscita dal gruppo del bassista “fumantino”) il marchio della ditta con dischi manieristici e live kolossal autocelebrativi (di questi eventi furono decisamente pionieri) fino alla consunzione creativa a metà degli anni 90.



Nei trent’anni di carriera da solista, Gilmour, oltre a rare tournée dai  contorni nostalgici non ha prodotto molta musica nuova, avendo tra l’altro un carattere molto riservato al contrario dell’ex compagno artistico Waters molto attivo in sproloqui politici propagandistici, arrivando anche agli insulti personali in una diatriba legale per i diritti del catalogo discografico.

Luck and strange arriva nove anni dopo Rattle that lock (buon disco rock, nulla più) e questa volta Gilmour ha fatto strike: l’atmosfera generale del disco è esplicitamente debitrice dell’esperienza dei Pink Floyd, quelli più pop della prima metà degli anni 70. È una specie di concept album nel quale come già anticipato si racconta della fragilità dell’età anziana e quindi sull’ineluttabilità della morte nell’esperienza personale e nel rapporto con i propri cari: “Ho una famiglia meravigliosa (…) a quel punto è arrivato il lockdown e in un certo senso mi ha aiutato a concentrarmi, perché eravamo come in gabbia. Ci siamo rinchiusi completamente per due anni, l’idea di uscire e prenderci il covid ci innervosiva. Non siamo riusciti a non prenderlo, ovviamente, ma le discussioni su questa spada di Damocle che pesava sulle nostre teste sono finite nel disco”.



Insomma, ancora una volta la pandemia è stato un inedito, drammatico spunto per i protagonisti del rock per mettere in musica le proprie riflessioni sul senso della vita. E ancora: “Un altro argomento di cui si parlava era l’invecchiamento: i temi erano quelli fin da principio: sono le cose e i problemi di cui si parlava io e Polly e qualche volta in famiglia. Durante il lockdown pensavamo che il virus avrebbe potuto spazzare via l’umanità, in buona sostanza e questo ci ha spinto a pensare ad altre cose che in qualche modo pendevano sulle nostre teste”.

E così, raccolti appunti sparsi di ipotetiche nuove canzoni, con i testi pieni di allegorie anche fiabesche della moglie Polly, Gilmour inizia la lavorazione dell’album, chiamando attorno a sé un gruppo di valenti musicisti tra i quali una leggenda del rock mondiale, il batterista Steve Gadd, un giovane produttore, due dei suoi figli Gabriel e Romany e il risultato è quello di un grande album, forse il più bello dell’anno.

Tutto parte con il recupero di una jam session estemporanea  del 2007 in un freddo fienile di proprietà di famiglia a cui partecipò Richard Wright, tastierista, altro componente storico dei Pink Floyd. Una registrazione di un quarto d’ora abbondante, un blues ipnotico che viene pubblicato nella versione deluxe dell’album: un omaggio all’ex compagno di viaggio musicale che morì l’anno dopo per un cancro ai polmoni. Con il testo di Polly Samson, il brano, nella canonica durata di quasi 7 minuti, dà il titolo a tutto il lavoro.

Per il resto, echi dei Pink Floyd, con il titolare in grande spolvero alle chitarre (gli abbondanti assoli e riff che riportano alla mente le atmosfere epiche di Shine on the crazy diamond), trascinanti episodi blues tra una saltellante chitarra e un impaziente tastiera  hammond, pop-rock di altissima classe tra ballate malinconiche e quadretti folk che richiamano un Leonard Cohen d’annata, orchestra e coro sullo sfondo ma sempre presenti e con Gilmour sempre sul proscenio a dettare ritmica e melodia.

Brividi lungo la schiena, pelle d’oca e commozione a palate. Perché la musica, quella buona, non morirà mai e la sua bellezza salverà questo povero mondo.

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