BOSTON – Metti: è tarda sera o notte, e sei un(a) docente (a volte anche uno studente o studentessa) dell’università di Columbia che, uscito dal campus e arrivato su Amsterdam Avenue, ha fretta di rientrare a casa e decide una volta tanto di non aspettare la metro e permettersi un breve tragitto in tassì, direzione Nord. Dopo qualche minuto, però, uno si ricorda – quando il suo, come dire, orologio sociologico interno si aggiusta – che dovrà aspettare un po’, perché i tassì diretti a Nord sono molto meno numerosi di quelli che sfrecciano in direzione Sud (tant’è vero che i tassisti più a corto di corse a volte interrompono il loro tragitto verso il Mezzogiorno e fanno un cenno all’indugiante fermo dall’altra parte della strada, il quale l’attraversa correndo e balza sull’automobile che fa una svolta a U e riparte, fingendo che puntare a Nord fosse fin dall’inizio la sua direzione).



Il perché è semplice: la direzione Nord è quella di Harlem. Che è l’entroterra di Columbia, e l’area che ha in generale, notoriamente, i redditi più bassi e i maggiori problemi di ordine sociale; ed è abitata da gran parte della bohème di Columbia (studenti e professori). Insomma una comunità meno appetibile per i tassisti, perché la direzione opposta porta al downtown dei teatri e dei cinematografi, dei ristoranti, dei grandi uffici.



Una percezione come questa fa parte dell’orientamento nella giungla di Manhattan; è una di quelle nozioni di antropologia quotidiana che tutti sanno ma che nessuno dice (per il timore di essere svergognati dalla retorica liberal, che non perdona). Come anche per esempio il diffuso accorgimento, quando si cammina lungo le strade laterali, perpendicolari ad Amsterdam Avenue, di tenersi sul marciapiede Sud (che guarda verso downtown) piuttosto che sul marciapiede Nord (che si affaccia ai casamenti popolari di Harlem). Pregiudizi, certo; che si condannano ad alta voce nella luce razionale del giorno – salvo aderirvi istintivamente quando cala il crepuscolo.



Del resto, esistono anche indizi più concreti, di questa vibrazione di povertà e di frustrazione nei paraggi della grande università. In una di quelle forme di trasparenza dell’informazione di cui gli Usa possono giustamente essere orgogliosi, coloro che hanno studiato o insegnato a Columbia ricevono – anche se hanno da tempo lasciato l’università e il paese – puntuali segnalazioni, dalla polizia dell’università, dei crimini grandi e piccoli (dalle rapine e furti con scasso ai palpeggiamenti) che avvengono nei pressi del campus, anche se non coinvolgono direttamente la comunità universitaria. Segnalazioni accompagnate di solito, oltre che dalle indicazioni sulla statura, la corporatura, l’abbigliamento, il veicolo usato, da una fotografia dell’individuo “sospettato”; il che evidentemente permetteva di identificare l’etnicità (questo è il termine usato dalla correttezza politica, invece di “razza”) senza bisogno di menzionarla. Da qualche tempo però le fotografie non vengono più pubblicate, probabilmente per evitare discriminazioni (come se la non-pubblicazione non costituisse già un indizio). È una preoccupazione per certi aspetti lodevole; ma il pericolo è quello di chiudere gli occhi di fronte al volto duro della realtà. E l’aumento dei piccoli crimini prepara e incoraggia quelli grossi, come aveva intuito l’attualmente non-citabile Rudolph Giuliani. Ecco perché la pugnalata che ha ucciso Davide Giri era annunciata da tempo.

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