Quasi sette anni di silenzio discografico sono una vita. Possono stroncare la carriera, puoi finire nel dimenticatoio. Possono sembrare un addio. Synfuniia, l’ultimo disco in studio di Davide Van De Sfroos risale infatti al 2015, un lavoro ambizioso, accompagnato dalla Bulgarian National Radio Symphony Orchestra. In realtà il cantautore comasco, a parte il periodo di ritiro forzato per pandemia, non è mai stato del tutto lontano, continuando seppur sporadicamente a esibirsi, scrivendo libri, riunendo in concerto il suo primo gruppo, i De Sfroos in occasione del 25esimo anniversario dell’uscita del loro album Manicomi, ristampato per l’occasione e addirittura dedicandosi alla televisione con un riuscitissimo programma dedicato a luoghi affascinanti e poco conosciuti della nostra Italia, Mythonauta.



Ma mancavano canzoni nuove. Questo Maader folk, in realtà, doveva uscire già lo scorso anno, ma per ovvi motivi è stato rimandato. Adesso che lo abbiamo ascoltato, possiamo dire che Van De Sfroos ha inciso il suo disco più bello insieme al capolavoro Pica! del lontano 2008. Ma se lì c’era l’esultanza, la freschezza e la grinta dell’essere giovani qua c’è un uomo maturo, con la malinconia dell’età, riflessivo e profondo. Van De Sfroos canta con una pulizia e una profondità che non avevamo mai colto, dovuta forse al clima rilassante di dove il disco è stato registrato, un agriturismo dove mentre incideva poteva guardare cavalli al pascolo e le sue amate montagne.



Dedicato alla “madre folk”, la musica popolare che lui ha sempre investigato, cantato, suonato e approfondito, unendo tradizione italiana e l’amata America, è un disco di canzoni riuscitissime, pregne di sofferenza, ma soprattutto bellezza, anticipato da due brani ormai conosciuti e ascoltati, la scatenata e divertente Gli spaesati, dedicata a tutti coloro che si sentono fuori posto in un mondo che brucia i sentimenti, esalta gli sbruffoni e i carrieristi, e l’intenso spiritual Oh Lord vaarda gio, in duetto con Zucchero, una bellissima preghiera (dice l’autore di averla composta già una decina di anni fa in una situazione emotiva particolare)  che innalza, credenti o no, il nostro bisogno di essere ascoltati e sorretti.



Il resto del disco alterna ballate acustiche, chitarre, banjo, violino, fisarmonica (con affascinanti trovate musicali, come il suono delle conchiglie) a brani più incalzanti, di impatto. Se non c’è più la carica punk del passato, c’è maggiore una attenzione al dettaglio, al messaggio, all’amore per la musica folk: “Nel nome di tutto, nel nome di niente” dice in Nel nomm.

Parecchi dei brani sono prodotti dal musicista giapponese nato a Milano Taketo Gohara, già con Vinicio Capossela e Negramaro fra i tanti; altri vedono la partecipazione del vecchio compagno musicale Angapiemage Gallieno Persico (anche al violino in diversi pezzi), Daniele Caldarini e Paolo Costola. Numerosissimi gli accompagnatori musicali. Citiamo soltanto, non per meriti di classifica, Alessandro Asso Stefano al banjo, organo Hammond, chitarre e mandolino; Niccolò Fornabaio alla batteria e xilofono; Paolo Cazzaniga chitarra elettrica; Lorenzo Marra fisarmonica.

L’apertura con Fiaada, accordi di chitarra elettrica blues, poi un riff da film western quasi morriconiano, il ritmo che diventa incalzante, il banjo di accompagnamento, un bel violino, la fisarmonica, è indicativa del percorso sonoro di tutto il disco. La già citata Nel nomm è pezzo di grande impatto, con un ritornello corale trascinante: “Parlo al mio Dio come a un compagno di banco”. Ma soprattutto ci dice di tenere aperta la ferita, quella ferita “da cui passa la luce”: “Nel nome del tutto, nel nome del niente nel nome del sempre, nel nome del mai nel nome del come, nel nome del quando nel nome del dove, nel nome del chi… E sorride la tua ferita perché ormai è una tua amica”.

Stella bugiarda ricorda il Van De Sfroos degli inizi: brano travolgente, divertente e ironico, racconta della sua gioventù, l’emozione di andare in una grande città per vedere un concerto dei Rockets (!), l’eleganza delle strade, le belle ragazze, l’incanto apparente: “Ma io sento il mio richiamo e penso a casa mia ragionamente banale e niente di speciale, c’è chi è fatto per partire e chi è fatto per restare”. Ecco l’uomo Davide Bernasconi, che resta attaccato alle sue radici, alla sua storia, alla sua umanità.

Poi ci sono pezzi più intensi, dove la malinconia che non è mai tristezza, abbonda. L’isola, aperta da slide e chitarra acustica, che si accelera nel ritornello; la splendida El vagabund, aperta da una fisarmonica che ferisce il cuore e “una domanda come un tatuaggio: Dove devo andare, cosa devo fare? Cosa riporto indietro quando torno a casa?”. Quella domanda che ci facciamo tutti, ogni santo giorno che Dio manda in terra quando ci alziamo confusi dal letto. Il pezzo diventa poi una sorta di mazurca. E ancora Guanto bianco, che paga pegno all’amore di Van De Sfroos per i songwriter americani, con uno splendido assolo di violino. Agata, quasi un pezzo alla De Gregori, pianistico, toccante e piena di sentimento, dedicato alle donne della Grande guerra, ma anche alle donne  di tutti i tempi che hanno sopportato su di sé il peso del mondo: “Ed erano donne prima del tempo, erano figlie ed erano mamme con un mattone fatto di sapone da sfregare forte per lavare i panni E hanno portato sulle spalle il fieno e poi i figli e le fascine di legno e hanno portato sotto il grembiule quello che sulle spalle non ci stava più e hanno taciuto e hanno aspettato che qualcuno tornasse indietro con la divisa o una valigia o anche senza più niente con sé”.

Il disco si chiude sui colori del tramonto e della notte, con Tramonto sud, ballata tex mex piena di nostalgia e dolcezza, e La vall (Il vento e i fiammiferi), canzone in punta di piedi, sottolineata da un quartetto d’archi maestoso. E’ tutto qua, ma è moltissimo. Un disco che ci terrà compagnia, a cui tornare spesso, un disco che abbraccia e consola.

Ben tornato Davide, ci eri mancato.