I verbali segreti dell’avvocato Piero Amara sulla “loggia Ungheria” sono usciti nel 2020 con «modalità quasi “carbonare”» dalla procura di Milano e le «precauzioni» che sono state adottate da Piercamillo Davigo «in occasione del disvelamento ai consiglieri nel cortile del Csm lasciando prudenzialmente i telefonini negli uffici, appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale». Lo scrive il tribunale di Brescia nelle motivazioni della sentenza con cui l’ex pm di Mani Pulite è stato condannato in primo grado ad un anno e tre mesi per rivelazione di segreto d’ufficio.
Inoltre, viene colto «un cortocircuito sinergico reciprocamente fuorviante» tra Davigo e il pm milanese Paolo Storari, senza che si possa capire se quella del magistrato sia stata davvero un «un’iniziativa “self made” o se non vi sia stato, invece, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra, un qualche mentore ispiratore» nel quadro di «eventuali interferenze verificatesi all’interno della Procura di Milano». In altre parole, l’ipotesi è che nella procura di Milano sia maturato un complotto attorno a quei verbali che il pm Storari diede nell’aprile 2020 a Davigo a causa dell’immobilismo dei suoi dirigenti, Francesco Greco e Laura Pedio, riguardo il contenuto di quei verbali, che poi Davigo consegnò a dieci consiglieri al Csm.
“DAVIGO FORSE CONOSCEVA GIÀ CONTENUTO VERBALI”
«Le motivazioni offerte dal dottor Davigo per giustificare l’incontinenza divulgativa e i criteri di selezione adottati nella scelta dei depositari del segreto sono state assai variegate ma, in nessun caso, ricollegabili a fini ordinamentali», scrive il presidente della Prima sezione penale di Brescia, Roberto Spanò, nelle 111 pagine delle motivazioni della sentenza di primo grado. Nel corso del processo, Davigo si era difeso spiegando di non aver seguito le vie formali in quanto tra i presunti membri della “loggia Ungheria” c’erano due consiglieri del Csm. Ma per i giudici di Brescia «non vi sarebbe stata ragione alcuna di informare il Csm» dei verbali «in assenza dell’iscrizione» nel registro degli indagati «di nominativi di magistrati».
Peraltro, il pm Storari si era rivolto a Davigo «per rimuovere l’impaccio all’indagine e non per denunciare i colleghi menzionati da Amara». Nelle motivazioni si parla anche di «numerosi indizi» a supporto della tesi che «Davigo possa essere stato al corrente del contenuto delle dichiarazioni dell’avvocato Amara ancor prima della consegna materiale dei verbali da parte di Storari, ove effettivamente avvenuta solo nell’aprile del 2020». La vicenda è, infatti, caratterizzata da «un vero e proprio sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici, pen drive ed indirizzi di posta elettronica che non ha consentito di tracciare appieno gli accadimenti». A tal proposito, per i giudici è «lecito pensare che la morìa dei possibili elementi di riscontro sia avvenuta in epoca da ritenersi ragionevolmente prossima alla perquisizione subita nell’aprile del 2021 dalla Contrafatto».
L’OMBRA DI BOCCASSINI SULLA CONDANNA DI DAVIGO
Le motivazioni della sentenza lasciano aperte almeno due piste per spiegare come i verbali di Piero Amara siano finiti prima nelle mani di Davigo, poi in quelle di magistrati e politici, infine sui giornali. La prima, quella che i giudici ritengono provata, vede Davigo unico colpevole. L’altra è più inquietante e complessa, perché ipotizza che il pm Storari non sarebbe l’unico ad aver parlato troppo e forse Davigo sapeva tutto già prima. Infatti, nella sentenza si richiama ad un «mentore ispiratore». Chi sarebbe? La sentenza fa un nome pesante: lo stesso imputato ha dichiarato che Storari aveva «delle credenziali che venivano da Ilda Boccassini, magistrato di straordinaria sagacia investigativa che lo aveva avuto nel suo dipartimento (…) aveva una fiducia illimitata in Storari, questo me l’aveva detto». Per i giudici di Brescia, comunque, tale fiducia era malriposta, perché la furia di Storari è giudicata immotivata e insensata.
La cautela con cui i suoi capi gestivano le rivelazioni di un soggetto ambiguo come Amara erano il segno delle «difficoltà incontrate dagli inquirenti nella gestione di un materiale limaccioso, cosparso da una patina scivolosa su cui era arduo far presa (…) la scelta organizzativa improntata alla cautela poteva dunque essere ispirata non a colpevole titubanza o, peggio, a volontà di insabbiamento, quanto piuttosto a ragioni di garantismo, onde evitare ricadute pregiudizievoli ai soggetti coinvolti rispetto notizie di reato anemiche o, peggio, strumentali». Di fatto, Storari, a prescindere se di sua iniziativa o spinto da tale mentore occulto, ha portato i verbali a Davigo, che li ha consegnati e di cui ha parlato a chi non aveva il diritto di sapere. Il movente? Nelle carte c’era il nome di Sebastiano Ardita, altro membro del Csm, ex amico di Davigo diventato suo nemico giurato. «Le risultanze processuali dimostrano che l’imputato, lungi dal farsi promotore di una missione salvifica per la magistratura (…) abbia piuttosto inteso polarizzare chirurgicamente l’attenzione sul dott. Ardita rendendo precaria anche in seno allo stesso Csm la posizione di un componente che egli considerava ormai fuori da gruppo».