Questo 2024, l’anno delle grandi incognite politiche (elezioni in Unione Europea e negli Stati Uniti) e delle minacce strategiche (le guerre in corso, Ucraina, Gaza, Yemen, Taiwan), consentirà una tregua quanto meno all’economia? È la domanda che da oggi e per quattro giorni dominerà l’annuale kermesse di Davos. La risposta dipende da molti fattori, alcuni dei quali imponderabili, ma uno almeno può essere già messo a fuoco: il costo del denaro. Dunque, la nostra domanda andrebbe riformulata così: sarà questo l’anno in cui le Banche centrali ridurranno i tassi d’interesse, visto che la grande fiammata dell’inflazione si sta spegnendo sia pur lentamente e non dappertutto allo stesso modo?



La cittadina nel cantone dei Grigioni, tra le Alpi svizzere, ospita ancora una volta oltre duemila protagonisti della politica e dell’economia, capi di Stato e di governo, guru e policy makers che si concentreranno su un tema di fondo: come ricostruire la fiducia. Gli scenari geopolitici saranno dominanti, naturalmente, insieme al clima e all’Intelligenza artificiale che quest’anno sarà per così dire l’ospite al quale riservare un’attenzione particolare. I riflettori si accenderanno su Emmanuel Macron che, indebolito in Francia, tenta un rilancio sulla scena internazionale, come su Volodymyr Zelensky, alla ricerca di un sostegno indebolito se non addirittura in gran parte perduto. Mentre scenderà sul parterre de roi l’ombra delle elezioni americane e di una possibile vittoria di Donald Trump.



Ma i conflitti politici e militari non lasciano indenne l’economia. Basti guardare alla nuova crisi di Suez. Può darsi che i bombardamenti anglo-americani plachino nel breve periodo gli attacchi degli Houthi yemeniti alle navi da trasporto, ma non risolveranno una guerra civile condotta per conto dell’Iran e dell’Arabia Saudita in competizione aperta per il dominio tra Golfo Persico e Mar Rosso. Gaza ha gettato benzina sul fuoco e offre il destro a Teheran per aprire una serie di fronti per così dire periferici invece di ingaggiare uno scontro diretto con Israele e gli Stati Uniti.



Già si fanno i conti dei danni e dell’impatto sulle famiglie, sulle imprese, sul commercio internazionale. Passa dal Mar Rosso il 30% dei container, la maggior parte delle navi sarà costretta a circumnavigare il Capo di Buona Speranza impiegando per arrivare da Shanghai a Rotterdam in media 36 giorni, 10 in più che passando per il canale di Suez. Secondo le stime dell’agenzia Bloomberg i danni ammontano a 10 miliardi di dollari al giorno, i costi di trasporto potrebbero salire del 61%, saranno colpiti settori chiave dell’industria come l’automobile che potrà subire una nuova crisi dell’offerta. Aggiungiamo che la congiuntura internazionale si presenta già molto frastagliata: la Cina non va, la Germania è ferma e rischia una vera recessione, tirano soltanto gli Stati Uniti che, però, non sono in grado di fare da locomotiva.

Tutte docce fredde sul mercato dei capitali. Prendiamo la transizione energetica: secondo le stime dell’Agenzia internazionale per l’energia (Aie) e di altri organismi, nel corso di questo decennio sono necessari dai 3 ai 5mila miliardi di dollari all’anno per gli investimenti nella transizione. Non possono essere solo denari pubblici, anche perché pressoché tutti i Governi sono altamente indebitati, mentre le stesse banche centrali sono gonfie di titoli di Stato che non sanno come ricollocare. Dunque occorrono consistenti capitali privati che si muovono come e dove è più conveniente. Ma sia il denaro dei Governi (cioè dei contribuenti), sia quello dei risparmiatori, affluisce copioso se i costi sono bassi (come è accaduto negli ultimi vent’anni). E il punto di riferimento è il tasso d’interesse. Torniamo così alle domande dalle quali siamo partiti.

Sarà interessante ascoltare cosa dirà a Davos Christine Lagarde, ma un’anticipazione plausibile viene dal capo economista della Bce, Philip Lane, intervistato dal Corriere della Sera: un taglio dei tassi troppo rapido sarebbe autolesionistico. Dunque, aspettiamo che la discesa dei prezzi sia confermata e la svolta consolidata. La prudenza non è mai troppa, tuttavia anche un allentamento della stretta troppo lento e in ritardo diventa altrettanto autolesionistico perché spinge le imprese a non investire e le famiglie a non spendere, facendo cadere la domanda e il prodotto lordo.

Wall Street si aspetta che la Federal Reserve riduca i tassi a partire dall’estate. Il Governo e gli operatori economici italiani si attendono che la Bce segua a stretto giro di posta. Attendere sarebbe un nuovo errore come quello di senso opposto commesso nel 2022 quando l’inflazione rialzava la testa. Riuscirà il nuovo governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, che due giorni fa si è incontrato con Giorgia Meloni, a mettere insieme le colombe e contrastare il volo dei falchi? Quando era membro del Comitato esecutivo si è distinto per la sua posizione soft, oggi può approfittare dei pasticci in cui si trova il Governo tedesco. È vero che in Germania potrebbe prevalere, proprio a causa della debolezza del cancelliere Scholz, la spinta a riparare sotto l’ombrello della Bundesbank e scegliere la linea dura contro l’aborrita inflazione. Ma i tedeschi sono davvero in grado di accettare una seria recessione in cambio di un dogma economico?

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