Dopo una giornata di ipotesi ieri sera è arrivata la conferma che gli Stati Uniti imporranno dazi del 25% su Canada e Messico e del 10% sulla Cina. La notizia ha mandato in rosso i principali indici azionari americani e invece ha rafforzato il dollaro. Solo oggi sapremo quale la sarà la forma precisa di questo primo pacchetto di dazi e soprattutto quanti e quali saranno le esenzioni. Si ipotizza, per esempio, che non includeranno le importazioni americane di petrolio dal Canada; diversamente gli Stati Uniti rischierebbero di trovarsi con un incremento dei prezzi della benzina. Sarebbe l’ultima conferma che l’America, a partire dalla crisi ucraina, mantiene un approccio realistico a dazi e sanzioni. Dopo mesi di annunci da ieri è comunque chiaro che le minacce non sono vuote e che gli Stati Uniti agiranno sulla leva delle tariffe per ristrutturare la propria economia diminuendo un deficit commerciale insostenibile. Per ora l’Europa non viene toccata e questo suggerisce che i dazi rifletteranno anche considerazioni geopolitiche.
Si apre una fase di incertezza perché da ieri è iniziato un capitolo nuovo. Il primo dato, ed è già importante, è che i dazi sono una realtà con cui occorre fare i conti sia nell’immediato che in prospettiva. Il secondo dato è che gli sviluppi rimangono imprevedibili; le questioni aperte ieri sono tante. Innanzitutto è difficile che i dazi non abbiano riflessi sui prezzi; anche nell’ipotesi che si voglia lentamente rimpatriare produzioni, innescando un circolo virtuoso, c’è un rischio sui prezzi perché negli Stati Uniti i costi sono sicuramente più alti di quelli del Messico o di quelli della Cina. La novità di ieri, poi, non chiude la partita, ma ne apre tante altre. Una delle più ovvie sarà la forma delle ritorsioni che i Paesi colpiti decideranno di mettere in atto. Infine, gli investitori, da lunedì, cercheranno di individuare i modi e il luogo del prossimo obiettivo. Dopo Canada, Messico e Cina è inevitabile pensare all’Europa con il suo surplus commerciale.
L’Unione europea non è la stessa economia del 2008 quando il fallimento di Lehman dava il via a una crisi globale. L’Ue ha ristrutturato la propria economia e oggi dipende dalle esportazioni molto di più rispetto al 2008; questa trasformazione è arrivata al prezzo dell’austerity e della crisi dei debiti sovrani. In cima alla lista delle importazioni europee dall’America, con cui si potrebbe riequilibrare la bilancia commerciale con gli Usa, ci sono gli idrocarburi, ma l’Europa se ne vuole liberare; anche se non volesse più liberarsene rimarrebbe il fatto che lo stesso gas partito dall’America, dopo i costi sostenuti per la liquefazione, per il trasporto e per la rigassificazione, arriva in Europa a prezzi quasi tre volte superiori. D’altro canto tutta la transizione energetica europea affonda le proprie catene di fornitura in Cina; questo è vero non solo per i pannelli solari, ma anche per la componentistica delle batterie.
L’incertezza non fa bene ai titoli azionari. Oltre a questa evidenza c’è il timore che intere economie possano entrare in recessione; su tutti e tre i Paesi oggetto dei dazi di ieri incombe questo rischio. Si rafforza invece il dollaro con gli investitori che scommettono su una crescita più robusta e su un riequilibrio dei conti americani. Il rafforzamento del dollaro in parte neutralizza i dazi e questo è un primo problema per l’Amministrazione Trump. Il secondo problema è salvaguardare i mercati azionari americani. I mercati che salgono ininterrottamente e gli eccessi di risparmio globale che continuano a fluire verso gli Stati Uniti non sono un “bene” per la bilancia commerciale americana e neanche per la sua industria nella misura in cui determinano una sopravvalutazione del biglietto verde; sopravvalutazione del dollaro significa meno competitività per le imprese americane.
Per Trump tenere assieme il riequilibrio dei conti americani e la reindustrializzazione del Paese con un’inflazione contenuta e senza troppa volatilità sui mercati non sarà facile. Sullo sfondo si intravedono poi i rischi geopolitici di questa operazione perché mandare in crisi interi modelli economici, pensiamo innanzitutto alla Cina, rischia di generare reazioni scomposte.
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