Ha invocato un metodo collaborativo per evitare uno “scambio di provvedimenti ritorsivi” nella partita commerciale Usa-Ue. Ma non si tratta soltanto di una pur importantissima partita commerciale. Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella durante l’incontro con Trump ha espresso una visione politica molto distante da quella del presidente americano. Bisogna poi fare i conti con i cortocircuiti della globalizzazione, spiega Paolo Quercia, analista di politica estera e direttore del Cenass (Center for Near Abroad Strategic Studies). Il punto su dazi, alleanza atlantica e strategia che manca.
“Ritorsione”: l’Italia può rivolgere quest’accusa agli Stati Uniti? Siamo colpiti dal “sovranismo” di Trump?
In linea di principio sì. Protezionismo porta altro protezionismo. Dal punto di vista pratico, però, la questione è differente. È il Wto che ha autorizzato gli Usa a mettere tariffe contro prodotti europei per consentire agli Usa una ritorsione contro i sussidi di Stato europei ad Airbus. Di fatto le tariffe Usa contro l’Europa sono frutto proprio del metodo multilaterale che il presidente Mattarella invoca e non del sovranismo di Trump. Il problema piuttosto è intra-europeo.
In quali termini?
L’Italia subisce una ritorsione per sussidi che non ha dato. Magari Trump voleva solo colpire il nostro surplus commerciale. O magari nell’includere anche prodotti italiani nella lista c’è un calcolo politico.
Perché la questione commerciale è politica?
Perché la filosofia di Trump è quella di slegare i contenziosi commerciali dal piano economico e legarli a quello della sicurezza, e più in generale al supporto dell’azione di politica estera americana.
Veniamo alla Nato. Trump ha chiesto all’Italia di pagare di più, Mattarella ha detto che siamo il secondo contributore. Come stanno le cose?
Le cose stanno che siamo ben al di sotto della soglia di un contributo pari al 2% del Pil, che è quello concordato dai Paesi Nato. Nel 2018 eravamo attorno al 1,15, ma con una spesa militare che non è proprio efficiente. Una parte di quel budget non si trasforma in sicurezza internazionale ma risponde ad altre necessità interne. Insomma che l’Italia non prende seriamente lo strumento della Difesa e che la spesa militare italiana è stagnante e sopratutto poco efficiente, è vero.
L’Italia non cresce e non siamo gli Stati Uniti.
Certo. Considerando lo stato dell’economia italiana e le difficoltà di budget appare difficile identificare margini di crescita. Va detto poi che la Nato attraversa una crisi di carattere politico, in parte dovuta allo stesso Trump.
Cosa dovrebbe dire il capo dello Stato?
Dovrebbe chiedere garanzie sul futuro della Nato e sulla strategia politica dell’Alleanza nel Mediterraneo, dove è carente, e verso Est, dove a volte ha posture troppo anti-russe. Insomma spendere più e meglio è giusto. Ma capiamo anche per fare cosa. Di questo dovrebbero parlare i presidenti e i ministri degli Esteri.
Mattarella ha anche detto che “l’Italia intende difendere l’ordine internazionale basato su regole certe, con l’Onu al centro, e un sistema commerciale libero e aperto basato sui principi del Wto”. Cosa può dirci dello stato di salute attuale di questo “ordine”?
Quel mondo non c’è più. Oggi i Paesi non sono divisi tra liberali e illiberali o tra coloro che sostengono le regole di diritto contro quelli che sostengono la forza. Oggi i Paesi vanno distinti tra conservatori dello Status Quo e revisionisti dello Status Quo. Noi siamo tra i Paesi conservatori. Perché eravamo tra i massimi beneficiari del vecchio sistema internazionale, ma anche perché siamo incapaci di reinventarci e di darci una nuova postura strategica. Basta vedere il basso livello del dibattito strategico in Italia per capire che siamo incapaci di percepire i cambiamenti e reagire ad essi. L’America di Trump è invece revisionista dello Status Quo. Questa mi pare la principale distanza tra i due Paesi.
Non crede che il convitato di pietra di questa visita di Mattarella negli Usa, come di quella di Pompeo in Italia, sia la Cina?
Sì, il tema del rapporto con la Cina ha assunto un peso importante nel bilaterale con gli Usa. Credo più per la faciloneria con cui a volte firmiamo accordi senza averne valutato bene gli aspetti strategici che per l’entità della nostra esposizione con la Cina. Il rapporto commerciale e tecnologico con Pechino è una carta importante per il nostro Paese e non va abbandonato acriticamente. Però avere la consapevolezza che gli affari Pechino non sono semplici questioni commerciali ma attengono alla dimensione strategica del Paese mi pare il minimo. Purtroppo la politica ha da tempo perso la dimensione strategica.
Cosa vuol dire strategia per lei?
Aver ben chiaro dove si vuole andare e con quali risorse. Noi viviamo invece in un mondo di ambizioni geopolitiche sconfinate, privo di restrizioni e di conflitti. E quando essi emergono ci stupiamo di essere richiamati alla realtà.
(Federico Ferraù)