Il Presidente cinese Xi Jinping è tornato in Europa per la prima volta da cinque anni per incontrare il Presidente francese Macron e poi proseguire verso Serbia e Ungheria. Cinque anni fa il cuore industriale europeo importava gas economico russo con contratti di lungo termine, i prezzi dell’elettricità erano meno della metà di quelli attuali, non c’era inflazione, i commerci globali fluivano senza interruzioni e le catene di fornitura, lunghe e efficienti, spesso partivano dalla Cina. Nel 2024, dopo il Covid e la guerra in Ucraina, lo scenario è irriconoscibile. L’Europa ha perso l’accesso al gas russo, il Medio Oriente è in fiamme e sull’Unione incombe lo spettro di una presidenza Trump con il probabile corollario di dazi; in realtà nemmeno la presidenza Biden è stata tenera perché l’Inflation reduction act è stato giustamente percepito anche come una sfida al sistema europeo.



Le relazioni tra Cina ed Europa sembrano avviarsi verso una fase conflittuale. L’Unione europea ha virato con decisione verso una transizione energetica che vede la Cina in una posizione di assoluta leadership: dai pannelli solari alle batterie elettriche, passando per le materie prime che le alimentano. La Cina in questi settori ha accumulato un vantaggio incolmabile nel breve periodo. Se l’Europa vuole ricostruire un sistema industriale che prescinda dai combustibili tradizionali, forse anche per un impeto “sovranista”, deve mettere le sue imprese al riparo da una concorrenza che per ora è impossibile da battere. Questo significa introdurre dazi e convincere la Cina a diminuire i sussidi statali.



È una sfida delicata perché la Cina ha ampi strumenti con cui rispondere. Per l’Europa aprire una fase di conflittualità, per ora commerciale, significa esporsi a incrementi di prezzi in uno scenario in cui ha perso l’accesso alla fonte energetica più economica di cui disponesse e cioè il gas russo. Non solo, dentro l’Europa convivono sensibilità diverse perché i rapporti commerciali che alcuni Paesi hanno con la Cina, pensiamo alla Germania, sono un multiplo di quelli, per esempio, francesi e perché non tutti i Paesi importano ed esportano gli stessi beni. L’Europa, quindi, deve navigare una fase complessa in cui l’alleato americano, almeno economicamente, è meno accomodante e in cui deve reinventare la sua industria controllando le pressioni al rialzo sui prezzi.



La Cina compete con l’Europa anche per le forniture di gas liquefatto che arrivano dal Medio Oriente. Il Paese asiatico può offrire contratti di acquisto a lungo o lunghissimo termine che invece sono preclusi all’Europa che vuole svincolarsi dagli idrocarburi.

La ricostruzione dell’industria europea in senso green e “autarchico” apre una fase delicata in cui l’Europa si espone alle contromisure altrui in attesa che il suo processo di reindustrializzazione sia concluso. Questa fase presenta rischi sia per le imprese esportatrici, soprattutto tedesche e italiane, esposte alle ritorsioni, sia per i consumatori costretti a subire i costi della reindustrializzazione e della guerra commerciale prima che ne arrivino i benefici. La durata di questa fase non si misura in meno di dieci anni e tanto più è veloce, tanto più i rischi e i costi si concentrano in pochi anni. Un errore di valutazione esporrebbe l’Europa non solo a rischi economici ma anche sociali perché nel nuovo mondo delle catene di fornitura brevi e dei protezionismi lo spazio di manovra è ristrettissimo e gli sbagli si pagano con aumenti dei prezzi generalizzati.

Tutto sembrerebbe consigliare un approccio più che prudente sia nei rapporti commerciali e politici, sia nella velocità della transizione, ma anche in questo caso le sensibilità all’interno dell’Europa sono diverse e riflettono sistemi economici e industriali diversi. La Francia, per esempio, dall’alto della sua produzione nucleare ha un sistema energetico infinitamente più stabile di quello italiano o tedesco.

Dal punto di vista italiano è inevitabile chiedersi se ci si possa fidare senza timori delle trattative francesi.

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