Alla fine l’Europa sta cedendo. Ha finto di voler combattere la guerra dei dazi sulle auto elettriche, ma si sta accordando con la Cina. Il punto di equilibrio per evitare i balzelli sulle vetture importate dal Dragone, spiega Giuliano Noci, prorettore del Polo territoriale cinese del Politecnico di Milano, probabilmente sarà un prezzo minimo al di sotto del quale le case automobilistiche di Pechino non potranno scendere. L’UE, e soprattutto la Germania, sa che imporre i dazi avrebbe significato ritorsioni pesanti per i prodotti europei destinati al mercato cinese, un lusso che in questo momento Bruxelles non può permettersi. Ora le nostre industrie automobilistiche dovranno fare esattamente ciò che ha fatto la Cina finora: accordarsi con le aziende asiatiche e cercare di acquisire il loro know-how per ridurre il gap che si è creato nella produzione delle nuove vetture elettriche e digitali.



Professore, come mai la tanto sbandierata guerra dei dazi sembra andare verso un accordo UE-Cina?

I dazi sulle auto elettriche cinesi non sono plausibili. L’UE sta facendo retromarcia perché su questa strada non risolve i suoi problemi e peggiora il rapporto con la Cina, il cui mercato è molto importante per l’Europa. Bruxelles non ha interessi allineati con quelli americani e sta cercando di chiudere questa spiacevole partita. I dazi sono sbagliati, non servono a nulla, penalizzano i consumatori, che vedono aumentare i prezzi, e non fanno capire alle imprese cosa deve essere fatto.



Qual è il punto di equilibrio per risolvere la questione?

Non sappiamo ancora come finirà di preciso, perché ci sono trattative in corso. Il punto di equilibrio, però, potrebbe essere che individuino un prezzo minimo, stabilendo che non si possa andare sotto una certa soglia. Una sorta di price cap al contrario. Al di là della soluzione scelta, il dato è quello strategico: l’Europa sta decidendo che quei dazi sono sbagliati. Il vero tema, comunque, non sono i sussidi del Partito Comunista Cinese alle imprese, ma il fatto che l’industria manifatturiera europea è arretrata: ha concepito le nuove automobili secondo vecchie logiche, mentre i cinesi le hanno pensate come oggetti digitali.



L’arrivo di Trump sta influenzando in qualche modo lo sviluppo della trattativa?

L’arrivo di Trump ha reso esplicito il tema della maggiore complessità di interazione commerciale con gli USA: servono mercati di riserva rispetto a quello americano. Non è secondario che le trattative abbiano cambiato direzione proprio dopo l’elezione del nuovo presidente degli Stati Uniti. Inoltre, la Germania, che aveva già votato in sede europea contro i dazi, sta spingendo moltissimo perché non vengano introdotti: per i tedeschi sarebbero una penalizzazione fortissima e anche per il sistema italiano della subfornitura. Un accordo con la Cina va bene anche a noi: non è un caso che Mattarella, nella settimana dell’elezione di Trump, fosse a Pechino.

Se dovessero raggiungere veramente un’intesa, che scenario si apre per l’industria italiana ed europea?

Dell’automotive italiano non c’è più niente, è rimasta solo la Ferrari. Per quanto riguarda il sistema europeo, credo che debba cambiare completamente pelle: non deve essere pervaso da cultura meccanica, ma digitale e di telecomunicazioni. L’automotive europeo deve allearsi con i player delle telecomunicazioni e del software: chi produce auto nuove in Cina sono player di questo settore, in partnership con i produttori tradizionali. Consiglierei di fare con i cinesi quello che loro hanno fatto con noi sull’endotermico: imparare da loro, realizzare delle joint venture con accordi in cui il know-how passi dalla Cina all’Occidente.

Quale dev’essere l’obiettivo?

Il mercato europeo per la Cina è uno sbocco fondamentale, soprattutto nel momento in cui Pechino ha una domanda interna molto bassa. Nel breve periodo non possono fare a meno di noi: siamo un volano di crescita imprescindibile. Se l’Europa agisse in modo coeso, potrebbe portare a casa dei risultati in chiave negoziale.

Non solo per le auto elettriche, ma in generale?

Certo. Quanto alle auto elettriche, comunque, va ricordato che non sono innovative in quanto elettriche, ma come oggetti digitali, e che intorno a loro ruota una serie di altri ecosistemi, come quello della fornitura di energia elettrica e dei servizi. Dovremo rendere pan per focaccia e dire: “Venite in Europa, ma trasferite know-how”. Questo discorso, tuttavia, non lo può fare il singolo Stato, ma l’Europa: altrimenti si concluderà poco.

In attesa di imparare dai cinesi, come ci si muove in questo periodo di transizione?

Bisogna fare degli investimenti per velocizzare il cambiamento, il più importante dei quali è la deregolamentazione. Su ambiente, intelligenza artificiale e digitale abbiamo una serie di regole che rendono il costo del cambiamento in Europa molto superiore a quello di altre aree. Il Financial Times ha pubblicato una ricerca che rivela come un cambiamento negli USA richieda sei mesi, nella UE quattro anni: per noi è un disastro in un momento di così grande turbolenza. Non dobbiamo morire di regole: possiamo vivere nel migliore dei mondi possibili, ma se poi siamo tutti disoccupati è un problema. Gli altri non le mettono: non solo la Cina, ma anche gli USA.

Il punto, comunque, sono anche gli investimenti?

Investimenti per cui occorre scala: c’è un gap enorme da colmare. Occorrono deregolamentazione e un soggetto unico. La frammentazione è un oggettivo ostacolo agli investimenti per l’innovazione, tant’è che le imprese europee investono molto meno in questo campo rispetto a quelle americane e asiatiche.

La deregulation non potrebbe farci correre qualche pericolo?

Ci vuole equilibrio, ma occorre evitare di essere dei pasdaran della regolamentazione: la regola è il rifugio di chi non ha le idee chiare su cosa fare. L’Europa non trova un’identità comune nelle priorità strategiche: il riflesso condizionato è rifugiarsi nelle regole.

La direttiva sulla produzione esclusiva delle auto elettriche dal 2035 è figlia di questa mentalità?

È una decisione figlia di cambiali elettorali, senza visione, che la von der Leyen doveva pagare ai verdi. Pura logica estemporanea politica.

Se anche UE e Cina si accorderanno sui dazi, Trump li vuole usare a profusione. Con quali conseguenze?

Nel breve periodo, i dazi fanno male alla crescita economica: la storia lo insegna. Nel medio e lungo periodo, vista la situazione in cui siamo, con disequilibri fortissimi, potrebbero innescare un processo verso una nuova Bretton Woods, mettendo insieme attori diversi in nome del pericolo della povertà verso cui ci portano queste dinamiche. La politica dei dazi potrebbe essere talmente pericolosa da indurre un revisionismo, una presa di coscienza che conduca a una nuova governance globale. Naturalmente con un Trump rinsavito e non quello per cui prevalgono i rapporti bilaterali in cui il più forte vince.

(Paolo Rossetti)

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