Oltre ad aver alzato i dazi sulle importazioni di auto elettriche cinesi al 100%, l’Amministrazione Biden ieri sera ha alzato, tra gli altri, quelli sull’acciaio e sull’alluminio al 25% dal 7,5% e quelle sui pannelli solari al 50% dal 25%. Dal 2026 i dazi sulle batterie passeranno dal 7,5% al 25%.
La decisione di Biden è diventata immediatamente oggetto della campagna elettorale e Trump ha promesso di inasprire ulteriormente quelli sulle auto elettriche. Un’eventuale Amministrazione repubblicana non farebbe che raccogliere il testimone di Biden aumentando i dazi in essere e allargandoli per includere probabilmente anche l’Europa.
I dazi hanno un effetto inflattivo perché gli stessi beni prodotti in America non saranno mai tanto economici quanto quelli prodotti in Cina e anche se prima o poi, eventualità remota, lo diventassero non accadrebbe prima di un periodo medio lungo. Più inflazione comporta ripercussioni sociali e tassi di interesse più alti. Gli Stati Uniti si possono permettere questa sfida, mentre l’Europa molto meno. Gli Stati Uniti si possono permettere di imboccare questa strada perché possono controbilanciare gli effetti recessivi dei tassi alti con spesa pubblica facendo leva sulla valuta di riserva globale, su mercati di capitali senza rivali e su una solidità geopolitica, incluso un esercito vero, che l’Europa non ha.
Washington si può permettere questa avventura perché ha i prezzi dell’elettricità ai minimi e quelli del gas vicini ai minimi degli ultimi venticinque anni. Più passano i mesi, più diventa chiaro che il sistema-Paese americano non ha alcuna intenzione di sobbarcarsi i costi di una transizione energetica, al buio, di cui l’unica cosa certa sono i costi astronomici. Biden, che incarnerebbe l’anima green del Paese, è entrato alla Casa Bianca con una produzione di petrolio americana a 11,2 milioni di barili al giorno, mentre negli ultimi mesi si sono raggiunti i 13,2 milioni di barili al giorno per un incremento di quasi il 20% in meno di quattro anni. Gli Stati Uniti in tre anni hanno sostanzialmente aggiunto la produzione del Qatar e dell’Algeria insieme. La produzione di gas è salita “solo” del 15%. Questo è accaduto con un Presidente “green”.
L’Inflation reduction act, con i suoi sgravi fiscali, ha agito come un magnete, insieme ai prezzi energetici depressi, per le imprese industriali europee. Gli Stati Uniti stanno reindustrializzando il Paese a ritmi che non si credeva possibili e le tracce di questa rivoluzione si vedono nei consumi di cemento piuttosto che in quelli dei cavi di rame con cui si allacciano alla rete i nuovi stabilimenti americani; oppure nei 17 miliardi di dollari che si stanno spendendo per aprire una fabbrica di chip in Texas grande come undici campi da calcio.
L’aggressività commerciale americana prende le mosse da condizioni che permettono di tenere insieme una fase che si preannuncia più inflattiva e con tassi di interesse più alti di quella degli ultimi 30 anni. L’Europa? L’Unione non si può permettere niente di tutto questo soprattutto dentro gli spazi angusti di una transizione green auto-imposta a ritmi pressanti. Pensiamo solo alle auto elettriche. L’Europa non può garantire prezzi accessibili ai propri cittadini senza la produzione cinese. Gli Stati Uniti non hanno questo problema perché continuano e continueranno ad andare a benzina.
Si dirà che l’Europa può mettere sul tavolo il divaricamento della politica monetaria della Bce rispetto a quella americana. C’è di che esserne scettici per almeno tre motivi: il primo è che con l’indebolimento del cambio l’Europa alla fine aggancerebbe la sua inflazione a quella americana, il secondo è che l’indebolimento del cambio verrebbe percepito dall’America e dai partner commerciali come uno strumento di una guerra commerciale a cui ribattere con i dazi, il terzo è che l’Europa si esporrebbe a un deflusso di capitali, con gli investitori in cerca di rendimenti più alti e rivalutazione del cambio a New York, di cui non si vede la fine e che l’Ue potrebbe contenere solo con misure coercitive, per la gioia dei risparmiatori europei. Più che una divaricazione di politica monetaria, l’Europa dovrebbe immaginare una divaricazione politica. Nessuna tecnica finanziaria o monetaria, infatti, può risolvere il problema europeo.
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