C’è qualcosa che non mi convince nell’attuale dibattito sul Disegno di legge riguardante l’autonomia differenziata approvato dal Consiglio dei ministri che propone di trasferire una parte delle competenze istituzionali e delle risorse finanziarie che fanno capo allo Stato alle Regioni sulla base di una loro specifica richiesta. Il Ddl prevede che la praticabilitaà del trasferimento delle competenze e delle risorse venga subordinata alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) da garantire a tutti i cittadini sul territorio nazionale e all’approvazione delle singole intese da parte del Parlamento.



La principale critica rivolta alla proposta del Governo è quella di fossilizzare, per via del trasferimento delle risorse storicamente impegnate dallo Stato sui singoli ambiti di intervento selezionati dalle Regioni, le notevoli differenze economiche e sociali esistenti tra i territori e di determinare in questo modo le condizioni per un l’ampliamento delle disuguaglianze esistenti. Alcune contestazioni arrivano persino a considerare il Ddl come parte di un disegno eversivo che ha come obiettivo finale la secessione in via di fatto da parte delle regioni del Nord Italia che hanno consultato su questo tema i cittadini dei loro territori con la promozione di specifici referendum.



Questa seconda critica appare del tutto infondata, dato che il perimetro di intervento delle 23 materie che possono essere in tutto o in parte trasferite, viene previsto negli articoli 116 e 117 della Costituzione italiana. Senza trascurare il fatto che tale condizione è già vigente per le regioni e le province autonome dotate di Statuto speciale. Quello che non trovo convincente nelle contestazioni avanzate dalle opposizioni è in particolare l’accusa di voler ampliare le divergenze nella capacità di produrre e di redistribuire il reddito sul territorio nazionale tenendo conto che le attuali disuguaglianze non possono che essere attribuite al mancato funzionamento delle competenze vigenti. Un modello che, al netto di un limitato numero di competenze decentrate in via ordinaria alle regioni, le più importanti quelle sulla gestione dei servizi sanitari e dell’assistenza, dei trasporti, dell’agricoltura e delle politiche attive per il lavoro, rimangono attualmente nel perimetro di quelle gestite dallo Stato. A partire dalla riscossione e dalla redistribuzione delle risorse fiscali, al netto dei tributi locali per i servizi, delle tasse sugli immobili e delle addizionali regionali e comunali sull’Irpef.



Il mantenimento del modello prevalentemente centralista della riscossione e della gestione delle risorse anche per per sostenere gli investimenti, lo sviluppo locale, e i redditi delle persone e delle famiglie dei territori più arretrati è una sorta di mantra che ha orientato per decenni le scelte dei Governi in carica e del Parlamento nazionale. Le ritroviamo nei dispositivi legislativi di varia natura: quote riservate degli investimenti pubblici, incentivi fiscali e contributivi per le imprese e per l’occupazione, interventi supplementari per specifici bacini territoriali di intervento, i sostegni al reddito per le persone e per le famiglie con un’intensità e una durata temporale superiore a quella degli altri territori. La palese inefficacia di una parte di questi interventi, in particolare quelli rivolti alle infrastrutture e alla gestione di aziende pubbliche, ha generato un’altrettanta produzione legislativa volta a semplificare i procedimenti burocratici, ivi compresi l’adozione di misure di semplificazione dei procedimenti burocratici e la nomina di commissari per l’esecuzione delle opere e degli interventi previsti, che non hanno prodotto risultati significativi.

Sul versante opposto la stessa idea che per ogni incombenza fosse necessario rivendicare l’intervento compensativo da parte dello Stato ha contribuito ad alimentare i comportamenti irresponsabili delle amministrazioni locali. Basta guardare i resoconti della Agenzia delle Entrate relativi ai livelli di riscossione dei tributi locali di varia natura e delle sanzioni amministrative negli enti locali del Mezzogiorno, che raramente superano il 50% del dovuto, per farsene un’idea.

Questi problemi, in particolare la scarsa efficacia delle quote vincolanti nell’assegnazione delle risorse e dei meccanismi di intervento decisionali sussidiari disposti dallo Stato, li ritroviamo nella attuazione del Pnrr. Aggravati dalla palese impossibilità di contrastare i ritardi burocratici nel breve periodo con l’innesto di nuovo personale nelle pubbliche amministrazioni, programmata dal precedente Governo con l’utilizzo di una parte delle risorse del Pnrr.

Mentre i rendimenti della gestione delle risorse da parte dello Stato risultano da molto tempo decrescenti, l’aumento del Pil italiano da tre anni a questa parte continua a risultare superiore alle previsioni grazie al motore degli investimenti privati e alla domanda delle famiglie. In particolare quelli delle aziende manifatturiere del Nord e del Centro Italia che continuano ad alimentare una domanda di lavoro che viene in parte soddisfatta con le migrazioni di giovani qualificati dal Mezzogiorno verso le regioni del Nord italia. L’attuale modello di gestione delle risorse disponibili, in particolare di quelle pubbliche, si è rivelato incapace di rimediare gli squilibri interni e tende in via di fatto a sottoutilizzare quelle pubbliche e il risparmio privato delle imprese e delle famiglie.<

Il problema non può essere aggirato con approcci meramente teorici, tantomeno può essere risolto con trasferimenti di risorse pubbliche a somma zero nell’ambito nazionale che penalizza l’utilizzo efficiente e produttivo delle stesse. A fare la differenza è la capacità effettiva dei vari ambiti territoriali di attrarre gli investimenti e le risorse umane in un contesto di elevata mobilità dei capitali e delle persone. In poche parole, dobbiamo toglierci dalla mente che lo sviluppo economico possa essere pilotato dall’alto sulla base dei modelli adottati nel secondo dopoguerra per accelerare il passaggio dalle economie agricole a quelle industriali.

Questo non significa affatto che la proposta di Ddl approvata dal Consiglio dei ministri rappresenti la risposta ideale alle criticità evidenziate. Subordinare l’intero blocco dei percorsi parlamentari al trasferimento, anche parziale, delle competenze alla definizione di una mole infinita e del tutto teorica dei livelli essenziali delle prestazioni, oltre che richiedere in parallelo un’altrettanta disponibilità di risorse finanziarie per assecondare tale obiettivo, rischia di vanificare anche le soluzioni più ragionevoli e diluite nel tempo che andrebbero costruite sulla base di una realistica capacità delle singole regioni di gestire le competenze in modo più efficiente. L’esperienza maturata nella sanità e nelle politiche attive del lavoro non assicura il risultato desiderato. Il decentramento spinto ha anche privato lo Stato di strumenti per assicurare, anche parzialmente, i rimedi con interventi e strumenti sussidiari.

Come abbiamo sottolineato, la capacità di ricostruire un capitale sociale adeguato, non solo di infrastrutture e di efficienti apparati amministrativi, ma soprattutto di tessuto imprenditoriale e di qualità delle risorse umane, porta a non delimitare gli ambiti delle riforme possibili a quelli relativi al trasferimento delle competenze istituzionali. Ad esempio, in questa fase di ripensamento delle filiere produttive a livello globale risulta indispensabile uno sforzo collettivo nazionale per attrarre nuovi investimenti. La dimensione dell’economia sommersa in molti settori risulta impedisce il salto di qualità e distorce la produzione e la redistribuzione del reddito. Questi temi, purtroppo, vengono costantemente aggirati per assecondare una domanda di interventi assistenziali a carico dello Stato che crea malcontento nei ceti più produttivi.

Coloro che dissentono legittimamente dal Ddl sull’autonomia differenziata varato dal Governo hanno pertanto il dovere di mettere in campo delle proposte alternative rivolte a rimediare le evidenti criticità dell’attuale distribuzione delle competenze istituzionali e delle risorse, anziché limitarsi a difendere un modello che concorre a generarle in modo palese.

Il corretto esercizio della democrazia e il buon funzionamento delle istituzioni non possono prescindere dalla verifica della capacità degli eletti dal popolo di gestire in modo efficiente le risorse messe a disposizione.

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