Prima premessa. L’Italia vanta più di 8.000 chilometri di coste, per circa 19 milioni di metri quadrati di spiagge, sulle quali insistono 103.620 concessioni, per 6.318 stabilimenti balneari, meno di un’impresa per chilometro di costa, e un miliardo di fatturato annuo complessivo, cioè una media di 159.000 euro per azienda. Questo lo stato dell’arte, con il relativo caos normativo che vede l’Italia nel mirino della Commissione europea, la prima resistente sulle sue posizioni normative di vecchia data, la seconda decisa a far rispettare le regole comunitarie, ovvero la direttiva Bolkestein.
Seconda premessa. Per inquadrare le regole adottate dall’Italia in materia, bisogna risalire al Codice della navigazione del 1942, praticamente riferimento fino a oggi, con qualche variazione e aggiunta, come il “diritto di insistenza” introdotto nel ’92, che ha stabilito il rinnovo automatico delle concessioni ogni sei anni, e come la regola che i soggetti già titolari di concessioni siano preferibili a nuovi pretendenti. Che poi sono i due punti maggiormente contestati dall’Ue. Ai quali si aggiungono altri problemi derivati, come i canoni ridicoli, le subconcessioni, la progressiva scomparsa delle spiagge libere.
E veniamo a tempi più recenti. Nel 2006 l’Europa vara la direttiva Bolkestein (dal nome dell’allora eurocommissario al Mercato interno): il rilascio di nuove concessioni e il rinnovo di quelle in scadenza devono “seguire procedure pubbliche, trasparenti e imparziali che consentano a nuovi operatori di concorrere su un piano paritario”. Qui cominciano le battaglie e le resistenze passive, mentre l’Europa sollecita (con le lettere di mora del 2009 e 2010) sulle inadempienze. Così il principio di insistenza e il rinnovo automatico vengono abrogati, ma cominciano le proroghe, prima fino al 2015, poi al 2020, anche queste contestate dall’Ue, e dopo ancora fino al 2034. Così l’anno scorso il Consiglio di Stato è costretto a intervenire, ribadendo lo stop ai rinnovi automatici e fissando la scadenza delle concessioni al 31 dicembre 2023.
Nelle scorse settimane il Consiglio dei ministri ha approvato l’emendamento con le nuove regole che entrerà nel ddl concorrenza: impegno a presentare entro 6 mesi la riforma di tutte le concessioni balneari, con la revisione dei canoni annui in base al pregio delle spiagge, “al fine di assicurare un più razionale e sostenibile utilizzo del demanio marittimo, favorirne la pubblica fruizione e promuovere un maggiore dinamismo concorrenziale nel settore dei servizi e delle attività economiche connessi allo sfruttamento delle concessioni”. Dal primo gennaio 2024, dunque, le spiagge italiane torneranno libere e chiunque potrà partecipare all’assegnazione di una o più concessioni.
Qui cominciano i problemi, a partire dal riferimento al solo “pregio delle spiagge”: comprensibili le perplessità degli imprenditori (soprattutto quelli più strutturati) che hanno pesantemente investito nelle concessioni e si sentirebbero sperequati da un regime indiscriminatamente concorrenziale. E anche se i metodi di compensazione potrebbero garantire un equo risarcimento, anche con quote legate all’avviamento (come si diceva un tempo) o al premio d’ingresso, ugualmente gli operatori si potrebbero trovare in spiacevoli condizioni di competizioni asimmetriche, dove davvero uno vale uno.
Di più, sembra che nello stesso ddl concorrenza sia filtrato un emendamento di stralcio del valore aziendale di impresa nei criteri di assegnazione e di indennizzo delle future concessioni. Ovvia la protesta degli operatori: il “valore aziendale non è un privilegio, ma il giusto riconoscimento che merita chi ha fatto investimenti e deve essere tutelato anche con indennizzi, come avviene peraltro per altre attività economiche. Ribadiamo che la direttiva Bolkestein va applicata – sostiene l’assessore regionale al Turismo dell’Emilia-Romagna, Andrea Corsini – ma sulla base di criteri oggettivi. È necessario che nell’iter di approvazione parlamentare della legge vengano coinvolte le Regioni per rispettare le specificità dei territori. Solo così potremo avere una legge applicabile e giusta che contempera la concorrenza e la tutela delle piccole imprese e del lavoro”.
Il timore, insomma, è anche che le future aste vengano organizzate con soli fini speculativi. “In Veneto – dice Alessandro Berton, presidente di Unionmare Veneto – il nostro è il comparto più importante del territorio: quasi 30 milioni di presenze, 10 miliardi di Pil, 150 aziende che hanno ricadute occupazionali importantissime. È importante tutelare chi fino ad ora ha fatto il proprio dovere, lo ha fatto bene anche nel principio della libera concorrenza, dato che il Veneto ha già iniziato l’assegnazione di nuove concessioni secondo la direttiva comunitaria. Confidiamo che il Governo vigili affinché il provvedimento possa completare il proprio iter e andare nella direzione necessaria per mettere in sicurezza le aziende e garantire la loro continuità occupazionale”.
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