A volte si assiste a dei giri immensi e a dei ritorni. Per quanto l’approdo in Consiglio dei ministri della (mini)riforma della giustizia penale fosse calendarizzato da tempo per la giornata di ieri, giovedì 15 giugno, è certo una coincidenza non poco evocativa che esso sia caduto proprio a ridosso della celebrazione della scomparsa di chi negli ultimi trent’anni ha incarnato il simbolo dell’anti-giustizialismo, così da rendergli omaggio per la sua battaglia per una giustizia più giusta, come lo stesso ministro Nordio ha dichiarato alla stampa prima che iniziassero i lavori.
Come già anticipato da queste pagine, nella bozza ci sono la cancellazione dell’abuso d’ufficio, la riduzione ai minimi termini del traffico di influenze, un ulteriore rafforzamento ai limiti alla pubblicazione dei contenuti delle intercettazioni, l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento per una serie di reati minori, oltre alla riscrittura delle regole di applicazione delle misure cautelari con l’introduzione della necessità di avvertire l’indagato almeno cinque giorni prima dell’esistenza di una richiesta di arresto per poter rendere interrogatorio.
Contro il ddl, manco a dirlo, si sono è prontamente levato il grido dell’Associazione nazionale magistrati mentre, di converso, il ministro ha messo in chiaro di non voler ascoltare le critiche provenienti dai suoi ex colleghi, e, anzi, di considerarle “inammissibili” in ossequio alla separazione dei poteri, ricordando come sia patologico che in Italia molto spesso la politica abbia ceduto alle pressioni della magistratura sulla formazione delle leggi.
Premesso con grande chiarezza che sarebbe solo un bene per il Paese se la magistratura non interferisse sul dibattito pubblico che deve invece accompagnare l’approvazione delle leggi, così come la politica dovrebbe rispettare le sentenze senza buttarla in caciara ogni volta che viene pronunciata una condanna, sarebbe fortemente auspicabile se si riuscisse una volta per tutte a ristabilire un adeguato contegno istituzionale, da parte di tutti i protagonisti. Se è vero che in democrazia la politica non deve in alcun modo individuare nella posizione critica di categorie professionali un’interferenza indebita, è anche vero che se le critiche arrivano da chi le leggi è chiamato ad assicurarne l’applicazione con la garanzia di dover rispondere solo ad esse, qualche anomalia francamente si produce. E gli ultimi decenni della nostra storia sono lì a testimoniarlo. La politica non può interferire nella applicazione delle leggi, non intendendo in alcun modo minare la sacrosanta indipendenza della magistratura, ma ciò dovrebbe valere anche all’inverso. Questa ci sembra la cifra di una democrazia matura.
Per quanto riguarda il progetto di riforma, esso presenta luci e ombre, che verranno magari meglio successivamente approfondite, ma di certo si offre alla consueta obiezione metodologica: la giustizia necessita sì di essere riformata, ma nella sua interezza, con una prospettiva di sistema. Anche stavolta invece si ha l’impressione che si sia seguita l’umoralità della piazza: affermare che l’obiettivo è fare del processo un luogo di accertamento della verità e non uno strumento di ricerca di un colpevole è certamente cosa buona e giusta, ma per realizzarla occorre molto altro che quello che si è messo in cantiere.
L’abolizione dell’abuso d’ufficio è una bandiera. Le modifiche del 2020 hanno già significativamente contenuto gli abusi – gioco di parole – che hanno caratterizzato la giurisprudenza dagli anni 90 in poi. Più condivisibile la riduzione del perimetro del diverso reato di traffico di influenze, la cui tipicità spesso ha vacillato nei primi anni della sua applicazione: se in Parlamento la proposta verrà approvata, per essere punibile il mediatore dovrà sfruttare “intenzionalmente” le relazioni con il pubblico ufficiale, che inoltre dovranno essere “esistenti” e non più anche solo “asserite”. L’utilità data o promessa, poi, dovrà essere economica, sicché non basterà più uno scambio di favori non monetizzabile; al contempo, la condotta sarà punibile solo se il versamento avrà lo scopo di remunerare il pubblico ufficiale in relazione all’esercizio delle sue funzioni, ovvero per realizzare un’altra mediazione illecita. Finora, invece, bastava che l’utilità costituisse il prezzo della mediazione, cioè la ricompensa per il mediatore, anche senza essere diretta al destinatario finale.
Condivisibile anche i limiti alla pubblicazione delle intercettazioni, ma francamente anche qui l’intervento di due anni or sono sembrava già adeguato. Il divieto di pubblicazione anche parziale si estende a qualsiasi dialogo che non sia stato riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento.
La bozza del disegno di legge, in otto articoli, prevede che quando il pm chiede la custodia cautelare in carcere, ma non le misure più lievi, si badi, a decidere sarà l’ufficio del giudice per le indagini preliminari in un’inedita composizione collegiale, cioè con tre magistrati invece di uno solo. La novità, per fortuna, non entrerà in vigore subito poiché non sfugge a chiunque frequenti i tribunali che essa avrebbe messo in crisi l’organico già carente. Inoltre, prima di disporre qualsiasi misura servirà procedere all’interrogatorio dell’indagato, notificandogli l’invito almeno cinque giorni prima di quello fissato per la comparizione. La previsione non vale tuttavia se sussistono le esigenze cautelari del pericolo di fuga o di inquinamento delle prove, o anche quella di reiterazione dei reati più gravi per mafia, terrorismo, violenze sessuali, stalking o commessi con l’uso di armi o con altri mezzi di violenza personale. La rilevanza concreta sarà assai contenuta e certo la nuova garanzia riguarderà prevalentemente i reati dei colletti bianchi.
Il ddl prevede infine il divieto al pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento per i reati per cui è prevista la citazione diretta a giudizio ovvero quelli senza l’udienza preliminare. Anche qui scarsa incidenza pratica e maggiore valenza simbolica. Sono davvero poche le sentenze di assoluzione con queste caratteristiche che vengono impugnate dai pubblici ministeri.
La sensazione è che si stiano facendo le prove generali, si stiano saggiando le forze in campo e le reazioni dell’opinione pubblica. Nelle more, il processo continua a patire le croniche malattie. Ma mai perdere la speranza.
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