È dell’altro ieri, 9 dicembre 2021, il via libera dalle commissioni Giustizia e Affari sociali della Camera al nuovo testo sul fine vita, che ora passa all’Aula di Montecitorio per l’approvazione definitiva. Il testo sembra ruotare intorno a tre parole chiave: libertà, dignità, dolore. Mentre la parola con cui la legge è comunemente identificata nella opinione pubblica, eutanasia, non viene mai pronunciata, anche se incombe come un macigno in tutti gli articoli del testo di legge. Una sorta di convitato di pietra intensamente desiderato dai fautori della legge, nonostante la consapevolezza dei rischi che accompagnano una richiesta che, se esaudita, è irrevocabile.
Non stupisce quindi che la legge preveda un Comitato di valutazione della richiesta di por fine alla propria vita davanti al rischio che possa trattarsi di una richiesta in contraddizione con le caratteristiche fondamentali previste dal testo di legge: libertà, dignità, dolore, valori questi evidentemente considerati irrinunciabili nel ddl in questione.
Ovviamente il paziente deve essere adeguatamente informato sulla propria condizione clinica e sulla prognosi, sui trattamenti sanitari ancora attuabili e su tutte le possibili alternative terapeutiche. Deve sapere che esistono cure palliative che potrebbero accompagnarlo serenamente ed efficacemente in questa ultima fase della sua vita, garantendogli il massimo rispetto per la sua dignità e aiutandolo a rendere sopportabile il dolore. Cosa abbastanza singolare, il comitato può ascoltare il medico curante, se lo ritiene opportuno, ma non è tenuto a farlo; a lui basta verificare che la richiesta di morte medicalmente assistita sia informata, consapevole e libera.
Ottenuto il parere favorevole del comitato, tocca alla direzione sanitaria dell’azienda sanitaria territoriale o alla direzione sanitaria dell’azienda sanitaria ospedaliera di riferimento attivare le verifiche necessarie a garantire che il decesso avvenga nel rispetto delle modalità stabilite, presso il domicilio del paziente o, se non è possibile, presso una struttura ospedaliera. Si tratta di un mero controllo sulle procedure da seguire: il rispetto del protocollo. Il tutto è riportato nella cartella clinica del paziente o nel fascicolo sanitario elettronico se è già attivato.
Singolare anche la conclusione dell’articolo 7 del ddl in cui si afferma che il decesso a seguito di morte volontaria medicalmente assistita è equiparato al decesso per cause naturali a tutti gli effetti. I morti, in altri termini, parrebbero tutti uguali, a prescindere dalla loro storia di vita e delle ragioni che ne hanno causato la morte.
Dopo un dibattito molto acceso in Commissione si è finalmente accettato che anche la libertà del medico e del personale sanitario meritassero la massima attenzione e si è riconosciuto il loro diritto alla obiezione di coscienza. Ma se il medico e il personale sanitario tutto possono fare obiezione di coscienza, questo non è possibile alle strutture sanitarie che debbono comunque garantire che la volontà del malato sia rispettata. Come se agli amministratori, ai direttori sanitari e direttori generali non fosse riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza: loro sono comunque tenuti a garantire al malato il nuovo diritto che la legge attuale sembra riconoscere in tutto e per tutto.
Eutanasia e morte medicalmente assistita
In un recente articolo apparso su Avvenire mons. Paglia, presidente dell’Accademia per la vita, ha riconosciuto come il dibattito sull’eutanasia sia segnato da imprecisioni, ambiguità e confusione. A suo avviso ci troviamo in una vera e propria “babele” di significati, sino a poter dire che non c’è termine più ambiguo di “eutanasia”, che ha sempre significato “buona morte” e mai l’atto di soppressione di un malato da parte di un medico.
La richiesta dell’eutanasia si accompagna quasi sempre a profonda sofferenza, solitudine e insopportabile angoscia, che richiedono interventi particolari per evitare tanto dolore. La paura della morte in condizioni difficili commuove l’opinione di tanti: come non essere compassionevoli davanti a casi così drammatici?
Ed è questo il grande equivoco su cui si centra la richiesta di legittimare l’eutanasia: liberare una persona da un dolore insopportabile, spesso accompagnato dalla sensazione che la propria vita abbia perso dignità e non valga più la pena vivere. I casi estremi toccano tutti, fanno riflettere, sconvolgono i cuori, sollevano dubbi e mettono in crisi alcune certezze, che fino ad allora avevano rappresentato punti fermi nella propria visione della vita. Nessuno può considerare freddamente i tanti casi drammatici che oggi si pongono alla nostra attenzione.
Paglia, citando un famoso chirurgo, parla di “moda dell’eutanasia”, facendola derivare, più che da un sussulto di compassione, dal crollo di quella cultura umanistica che di fatto sostiene le relazioni umane nella società occidentale: “L’eutanasia legalizzata rappresenta la rottura del legame simbolico tra le generazioni. Figli, nipoti e, ormai, pronipoti, visto che stiamo per diventare una società a quattro generazioni, sapranno che ci si può sbarazzare dei vecchi. Nel momento in cui una simile prospettiva dovesse essere ammessa e diventare oggetto di una forma di consenso sociale, i più giovani non potrebbero fare a meno di vedere i più anziani come oggetti da gettar via. Quando i ‘vecchi’ non serviranno più, che siano depressi o che ancora non abbiano trovato il reparto medico in grado di non farli soffrire, si deciderà che è tanto semplice, e persino più caritatevole, sbarazzarsene”.
Per Lucien Israël, che fa dell’eutanasia un’analisi molto lucida nel suo libro Contro l’eutanasia (2007), si mina alla radice quel contratto sociale che fonda la comunità umana. E purtroppo avviene quasi in maniera banale, non riflessa. Israël aggiunge: “Bisognava aspettarselo che la richiesta di esecuzione medica diventasse quasi una banalità”. E vede in questa drammatica moda culturale un indebolimento dei legami esistenti sia tra gli individui che tra le generazioni e i gruppi sociali: al giorno d’oggi, proprio quei valori che rendono possibile la società sono in pericolo.
L’esaltazione dei casi limite portati per giustificare disposizioni legislative rischia di innescare processi che conducono allo scardinamento della vita anche associata. Tutti concordiamo che la sofferenza può far paura più della stessa morte. E va ricercato ogni rimedio per eliminarla. E qui si apre la questione di quanto la società si impegni nella ricerca per abbattere il dolore, per sostenere le cure palliative, per favorire un coinvolgimento della stessa società perché nessuno venga lasciato solo nei momenti di sofferenza.
(1 – continua)
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