Il voto del Senato sul ddl Zan ha suscitato infinite discussioni ma era largamente prevedibile. La strada parlamentare su cui era incanalato il provvedimento portava al voto segreto, e quando non si vota in modo palese le sorprese dei franchi tiratori sono dietro l’angolo. C’è sempre qualcuno che deve regolare i conti con qualcun altro. Si poteva seguire strade alternative? Certamente, ma Enrico Letta non ha voluto.



Si è impuntato sulla battaglia identitaria e ideologica ed è andato dritto a sbattere. Sarebbe bastato togliere un paio di passaggi molto discutibili, come la definizione di identità di genere, e da ieri l’Italia avrebbe avuto la sua legge contro l’omofobia con pene inasprite contro certi reati.

La mediazione è il cuore della politica, la ricerca di un accordo va nella direzione di tentare di comporre i legittimi interessi di tutte le parti. Una settimana dopo la pesante sconfitta ai ballottaggi, ieri è stato il centrodestra a cantare vittoria. Il passo indietro del ddl Zan viene considerato un passo falso di Letta. Ma non è detto che lo sia. La difesa di quella legge senza ritocchi ormai scricchiolava da tempo, il Pd non era riuscito a farla passare prima dell’estate, le promesse del segretario si perdevano per strada e forse Letta ha preferito togliersi di dosso questo problema scaricando la colpa su Renzi e il suo partito sempre più centrista, in cerca di un ruolo in vista della corsa al Quirinale. Può starci. In questa fase, accantonare dal tavolo del confronto un tema comunque divisivo può ora consentire al Pd di concentrarsi su questioni su cui finora la sua attenzione è stata evanescente: le pensioni, per esempio, oppure il green pass sui luoghi di lavoro. Al di là del ritorno del fascismo (di cui a urne chiuse nessuno parla più) e delle intemperanze delle piazze no vax, il certificato vaccinale pone grossi problemi a tutti i sindacati. Ora la tensione è acuita dallo scontro su quota 100 e dallo strappo tra le confederazioni e Draghi. E la Triplice non è propriamente dalla parte di Salvini e Meloni.



Ma c’è un altro aspetto del voto di ieri che va sottolineato. Nonostante abbia vinto le amministrative, il Pd al governo non batte chiodo esattamente come gli altri partiti. I grillini con il reddito di cittadinanza, la Lega con le pensioni, ora il Pd con il ddl Zan: le battaglie identitarie, le cosiddette bandierine di ogni partito sono altrettante Caporetto. Con Mario Draghi a Palazzo Chigi c’è spazio soltanto per le riforme imposte dagli accordi sul Pnrr e nient’altro. Le rivendicazioni dei partiti possono attendere perché i provvedimenti che avanzano sono altri. Il premier tira dritto finché può (cioè fin quando non si entrerà nel vivo della successione a Mattarella); viceversa, chi cerca lo scontro va a sbattere. Dopo Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Giuseppe Conte da ieri ne ha fatto esperienza anche Enrico Letta.



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