Caro direttore,
stiamo assistendo in questi giorni ad altisonanti dichiarazioni in favore dei diritti di coloro che potrebbero essere discriminati in base al proprio orientamento omosessuale, transessuale e quant’altro, in nome dell’identità di genere, considerata come una certezza acquisita.

In Europa tutti i vertici della Ue si dichiarano appassionati sostenitori della visione del mondo arcobaleno perché la ritengono una primaria battaglia di civiltà.



Mai si è vista nella storia una simile intrusione nella libertà di pensiero e di espressione dei cittadini di ogni paese. Al punto che la presidente von der Leyen si arroga il diritto di criticare aspramente la legge ungherese sul divieto di diffondere o promuovere contenuti relativi all’ideologia gender ai minorenni. Quattordici paesi hanno fatto altrettanto, incluso l’Italia, e non si capisce bene in base a quali principi.



Ora, Orbán è tutt’altro che un agnellino, ma la ritorsione subito applicata dalla von der Leyen (la non approvazione del Recovery Plan ungherese e l’apertura di una procedura di infrazione per violazione dei diritti Lgbtq+) è un vergognoso ricatto, indegno di chi parla di diritti ad ogni piè sospinto. Molti politologi ritengono che in realtà si tratta di un modo per mettere in difficoltà il Governo ungherese per i suoi atteggiamenti filo-russi.                                                                                                



Ma è mai possibile che la presidente della Ue ignori che la Carta dei Diritti dell’Unione Europea promulgata nel 2000, si conclude con l’articolo 54?                                                                                       

Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata nel senso di comportare il diritto di esercitare un’attività o compiere un atto che miri alla distruzione dei diritti o delle libertà riconosciuti nella presente Carta o di imporre a tali diritti e libertà limitazioni più ampie di quelle previste dalla presente Carta”.                                                                                                                                                      

E che l’articolo 14 sancisce “il diritto dei genitori di provvedere all’educazione e all’istruzione dei loro figli secondo le loro convinzioni religiose, filosofiche e pedagogiche, rispettati secondo le leggi nazionali che ne disciplinano l’esercizio”?                                                                                                                            

Se giova ripetere per l’ennesima volta che non è ammissibile discriminare nessuno per il colore della pelle o per il suo sesso, dovrebbe essere pure ovvio che non è ammissibile discriminare o addirittura punire chi non intende approvare determinati comportamenti sessuali, oltre che l’insegnamento o la teorizzazione degli stessi in base alla considerazione che si tratta di un grave errore antropologico.                                       

Eppure, in diversi paesi d’Europa molte persone hanno perso il lavoro per aver sostenuto principi del tutto elementari, vale a dire che “i bambini nascono da un uomo e da una donna”, o che “i bambini hanno diritto ad avere una madre e una madre”. Persino una famosa scrittrice come J.K.Rowlings ha dovuto subire un’indegna gogna mediatica per aver sostenuto le stesse cose. Ma su queste centinaia di violazioni della libertà di pensiero e del diritto a non essere discriminati per le proprie convinzioni, la presidente von der Leyen non ha pensato di sollevare nemmeno un sopracciglio, e tantomeno i leader di altri paesi.                                                           

Per fortuna sembra proprio che si stia arrivando ad un punto di estrema saturazione, perché sempre più spesso le persone discriminate per il loro libero pensiero vengono ora reintegrate al proprio posto di lavoro dopo lunghi processi, e proprio in paesi come la Gran Bretagna, che aveva davvero esagerato: secondo la British Medical Association, infatti, “non è più lecito chiamare ‘futura mamma’ una donna incinta, per non offendere i maschi che possono partorire”. Sic (cfr. il mio La sindrome del criceto, La Vela 2020). È proprio vero che il sonno della ragione genera mostri.

Se guardiamo all’Italia, vista la battaglia sul ddl Zan, le persone più lucide e non appannate dal furore ideologico si rendono conto che la disputa si svolge in realtà intorno ad un importantissimo tema di carattere antropologico: l’introduzione in una legge penale di un concetto come l’identità di genere auto-percepita che i promotori del ddl Zan ritengono un concetto universalmente acquisito. Quando non lo è affatto.

E non solo: ovunque stanno emergendo problemi in seguito ad autocertificazioni di genere che comportano gravi violazioni dei diritti delle donne, come nel caso degli atleti maschi che si dichiarano femmine vincendo tutte le gare riservate alle donne, o dei condannati per stupro, che si fanno inserire nelle carceri femminili, o nel caso di trans che pretendono di entrare nei bagni e negli spogliatoi femminili. E via di questo passo.

Pochi in Italia hanno saputo che Christopher Dummitt, il professore di storia canadese che è considerato uno dei più famosi teorici del gender, ha dichiarato alcuni mesi fa: “Mi vergogno profondamente che le teorie che avevo sostenuto con tanto fervore e nessun fondamento, siano ora accettate in tutto il mondo da istituzioni, associazioni, governi. E senza che siano mai state provate”.

Ancora meno persone, inoltre, conoscono la vera storia del dr. John Money, lo psichiatra convinto che il sesso biologico non conti, e che forzò uno dei gemelli Reimer, Bruce, a diventare femmina a sette anni. Pentitosi tardivamente, a quasi quarant’anni Bruce si suicidò, cosa che fece anche suo fratello sconvolto dalla tragica vicenda.

Nonostante il suo tragico esordio, Money fondò la Clinica per l’Identità di Genere, in cui venne perfezionato il protocollo chirurgico e psicologico che si diffuse in tutta l’America grazie ai libri di grande successo in cui Money derubricava, tra l’altro, tutta una serie di perversioni a semplici parafilie, appassionandosi particolarmente al tema della pedofilia, tanto da sposarne pubblicamente la causa. Spiegò infatti alla rivista Time nell’aprile 1980: “Un’esperienza sessuale nell’infanzia, come essere partner di un parente o di una persona più grande, non ha necessariamente un influsso negativo sul bambino”.

Ecco, questa è l’origine di quell’identità di genere che seconda la von der Leyen, Sassoli, Macron e altri leader europei costituisce uno degli inviolabili valori dell’Europa.

Valori che vengono promossi attraverso il perverso uso di quella neo-lingua da cui già George Orwell ci aveva messo in guardia. Ne troviamo una riprova nella cosiddetta Risoluzione Matic (dal nome del suo promotore) approvata dal Parlamento Europeo a larghissima maggioranza, in cui sotto il titolo di “Salute riproduttiva” (!?!) si proclama l’aborto come un diritto assoluto, si condanna l’obiezione di coscienza, si promuove la pratica dell’utero in affitto e l’adozione per le coppie gay.

A proposito di “Salute riproduttiva” vorrei ricordare che il comportamento omosessuale, che esiste da sempre ed è oramai completamente sdoganato, per non dire osannato da mass media e imprese, è oggi del tutto ammissibile, pur non essendo però per nulla “sostenibile”. Per un semplice motivo: perché esclude chi lo pratica dal compito della perpetuazione della specie umana affidata dalla natura a una coppia eterosessuale.

Ê il motivo per cui le imprese e le istituzioni che tingono di arcobaleno i loro marchi e i loro prodotti, e tengono corsi di gender per i figli dei dipendenti, stanno semplicemente segando il ramo su cui sono sedute: tra un po’ di anni, vista l’accelerazione della denatalità anche per questo motivo, a chi venderanno i pannolini e i prodotti per bambini? E più in avanti, a chi venderanno qualcosa, incuranti come sono del malthusianesimo occulto ma assai presente nei nuovi, inviolabili valori?

Incuranti del futuro, intente solo a sfruttare il contingente risvolto commerciale del politicamente corretto, sono oggi tutte scatenate sostenitrici di una sostenibilità che negano nei fatti concreti con la loro sempre più convinta e intensa promozione del gender.

Probabilmente senza nemmeno sapere che la bandiera arcobaleno non rappresenta affatto l’arcobaleno naturale: i suoi colori sono sei invece di sette, sono invertiti nell’ordine, come li volle nel vessillo della sua società teosofica l’occultista Helena Petrovna Blavatsky, che nel 1888 pubblicava la rivista Lucifer. Altro che bandiera della Pace!

Sia le aziende che le associazioni Lgbtq promuovono massicciamente il nuovo dogma dell’inclusività. Ho trovato interessante in merito il pensiero del filosofo Francesco Chillemi, appena rientrato in Italia dalla Rutgers University americana: “Il pensiero progressista giunge a sostenere che l’inclusività debba assurgere a principio; un punto fisso imprescindibile per ogni paese democratico e civile, che deve saper valorizzare tutte le minoranze e rispettarne (ossia, accettarne) le peculiari convinzioni etiche, religiose, culturali e ideologiche. Qui si crea una con-fusione tra ciò che è da riferirsi alle persone e ciò che riguarda invece le idee. Infatti, includere le persone in una società o nazione non può mai voler dire accettare tutte le idee e le convinzioni che queste persone hanno. E questo è un dato di ragione (logica), non un punto di vista (ideologico).

Per capirlo, bisogna avere chiara la distinzione tra l’identica dignità e gli identici diritti universali di cui ciascun individuo in quanto tale deve poter godere e la NON identica dignità di ogni idea in quanto tale, ossia a prescindere dal suo contenuto (che potrebbe essere assolutamente inconciliabile con il sistema democratico).

Affermare il principio dell’inclusione di tutte le idee significherebbe attribuire pari valore a visioni diametralmente opposte, dunque del tutto incompatibili tra loro e perciò origini di inevitabili conflitti, non solo verbali. È proprio per evitare di cadere in questo equivoco che gli stati democratici si sono dotati di una costituzione, mirata ad ancorare l’unità di un intero popolo a determinati princìpi, a valori fondanti uguali per tutti e non negoziabili. Ciò implica una differenza sostanziale tra l’indiscussa libertà di espressione e l’assurda pretesa che qualsivoglia idea abbia di per sé il diritto di essere riconosciuta per legge come universalmente valida e possa così essere messa in pratica legalmente. Il concetto progressista di inclusività rivela allora tutta la sua inconsistenza logica, ragione per cui non può in nessun modo essere considerata un principio”.

Quanto ai valori fondanti dell’Europa, basterebbe fare un rapido confronto tra l’immagine di un qualsiasi Gay Pride e una funzione in una qualsiasi cattedrale d’Europa. Per capire quali sono i veri millenari valori capaci di costruire tradizioni di grandissima cultura, insuperabile – oltre che nel rispetto della natura e dell’essere umano – anche nelle sue espressioni artistiche. Ma se la signora von der Leyen preferisce Ru Paul, sappia che anche per motivi estetici oltre che sostanziali, non ci rappresenta per niente, e con noi milioni e milioni di europei. Ancora convinti che i bambini nascono da un uomo e da una donna, e ancora più convinti di voler essere lasciati liberi di insegnarlo ai loro figli senza venire discriminati e puniti come omofobi.

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