Alle molteplici voci che si sono levate in questi ultimi mesi da pressoché tutti gli schieramenti culturali e politici a criticare il disegno di legge, già approvato da una delle camere del Parlamento italiano, sull’omofobia (ddl Zan), si è unita ieri la Nota della Segreteria di Stato del Vaticano consegnata all’ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede. Riprendendo alcune delle argomentazioni avanzate nel corso dell’ampio dibattito sul tema, e in particolare quella che ne rimarca la problematicità rispetto alla libertà di opinione, la Santa Sede aggiunge una sua specifica visione, di sua altrettanto specifica competenza giuridica, secondo cui il ddl potrebbe essere in contrasto con alcuni articoli del vigente Concordato, che garantisce alla Chiesa (ma anche ai suoi ministri e ai laici) piena libertà di opinione e di manifestazione del proprio pensiero.
Si tratta, con tutta evidenza, di un caveat particolarmente rilevante, che sta costringendo la stessa opinione pubblica a esprimersi, ora stigmatizzando la presa di posizione ora salutandola come – finalmente – benvenuta.
È noto infatti che il peso delle istituzioni ecclesiastiche in Italia ne fa un interlocutore di non trascurabile importanza, capace di muovere a favore delle proprie tesi il piatto della bilancia soprattutto quanto tale piatto è ancora di fase di oscillazione e il dibattito non vede ancora vincitori e vinti. Ma, al contrario, potrebbe anche essere che proprio per una decisione ufficiale e resa pubblica, argomentata sulla base di un atto di diritto internazionale letto come contrario alle scelte di alcune parti politiche, si crei una reazione avversa, capace di far rompere gli indugi e porre fine alla discussione con un’approvazione a maggioranza che, a sua volta, chiude almeno la fase parlamentare del dibattito.
Se pertanto gli effetti politici dell’atto di cui si discute potrebbero essere così diversi e, quindi, imprevedibili, occorre rimarcare che si è trattato di una presa di posizione forte, rischiosa sul piano degli effetti e quindi evidentemente mossa non da una tensione all’interferenza, bensì da un autentico moto ideale degno di nota, che si esprime a prescindere da scelte prudentemente strategiche e pilatescamente neutrali.
E, in effetti, il timore espresso dalla Nota è che prevalga sul tema in esame una scelta fortemente polarizzata, che si spinge non solo a tutelare dalla violenza e dall’oppressione determinate categorie di persone, ma che orienta il pensiero sul tema della sessualità/identità verso un’unica direzione, a scapito di tutte le altre e di quel pluralismo culturale che è l’anima della democrazia. Si sta, in altre parole, espellendo dalla piazza pubblica chi abbia in materia una opinione discordante da altre che paiono più condivise e più diffuse?
Se questo fosse il rischio – del resto paventato da molti – allora si potrebbe comprendere come mai si sia giunti ad un punto del dibattito parlamentare in cui sia stato doveroso esprimersi, anche a scapito della più ampia impopolarità.
Se invece i rischi non siano così forti e si tratti soltanto di ridiscutere “tra pari” e sul piano del diritto internazionale non la generalità del disegno di legge bensì alcune sue davvero problematiche e discutibili formulazioni (quale ad esempio quella dell’art. 4 sulle esenzioni, un articolo davvero molto mal formulato), compreso l’uso della sanzione penale per “pensieri”, a prescindere dal loro effettivo impatto sui comportamenti criminosi, allora ci si può augurare che il governo in carica ne prenda atto e metta sul piatto della bilancia emendamenti che, senza nulla togliere a quanto sia ampiamente condiviso, correggano le incongruenze più vistose.
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