C’è un “filo rosso” che lega insieme il dibattito italiano sul ddl Zan, la Nota del Vaticano, il richiamo alla laicità di Draghi, l’eco sulla laicità del presidente Macron al Consiglio europeo, la vicenda della legge ungherese e l’eventuale violazione dei Trattati europei, con possibile procedura sanzionatoria per l’Ungheria.



Ma andiamo con ordine e partiamo dai nostri principi costituzionali. Nell’art. 3, comma 1, Cost. sono contenute tre norme diverse e tutte importantissime: il principio di pari dignità sociale dei cittadini; il principio di eguaglianza davanti alla legge; e il principio della irrilevanza della “distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.



Manca, ovviamente, la previsione del “genere”. Tuttavia, una tutela costituzionale del “genere”, nell’accezione in cui questo termine è da intendere, esiste ed è ben evidente nell’insieme dei tre principi contenuti nell’art. 3, comma 1, Cost. Ben vengano, perciò, tutte le legislazioni che specificano quei principi in relazione al “genere”.

Ogni diritto individuale, però, non vive isolato, ma nel contesto di tutti i diritti costituzionali riconosciuti a tutti i cittadini, e questi diritti si limitano reciprocamente, per cui è necessario trovare il modo per definire come si contemperano. Nel ddl Zan è stata inserita una disposizione in tal senso (l’art. 4) per la quale sono fatte “salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”.



Non fosse stata scritta, sarebbe stato lo stesso, anche perché il rapporto tra i principi dell’art. 3 Cost. e la libertà di manifestazione del pensiero si basa su chiare distinzioni di ambito e modalità, anche se il loro equilibrio ha un carattere dinamico e può dipendere dalla situazione di fatto su cui avviene la collisione dei diritti costituzionali; la prevalenza della pari dignità sociale sulla libertà di manifestazione del pensiero, o viceversa, è spesso regolata da norme penali e anche nel caso delle questioni di genere sarebbe il giudice a determinare l’equilibrio concreto tra i diritti in gioco.

Rispetto a questo tema, per il quale è sorta una discussione confusa nei media, la nota del Vaticano, che è un atto diplomatico, esprime la preoccupazione che le disposizioni del ddl Zan “avrebbero l’effetto di incidere negativamente sulle libertà assicurate alla Chiesa cattolica e ai suoi fedeli dal vigente regime concordatario”. Questo non è affatto detto che accadrà, anche perché si può seriamente dubitare sia che la Chiesa voglia spingersi sino all’istigazione al compimento di atti discriminatori o violenti, e sia che, per contro, le associazioni di tutela delle vittime dei reati di genere vogliano mettere in discussione gli insegnamenti del catechismo cattolico, l’“esercizio del magistero e del ministero spirituale” della Chiesa e “la sua missione pastorale ed educativa” espressa nei diritti riconosciuti a questa dal Concordato.

Tuttavia, certamente nell’ambito sociale è già aperto da tempo un terreno di confronto tra le questioni di “genere” e gli insegnamenti religiosi della Chiesa cattolica, che continuerà in modo forse più acceso e dipenderà anche dal modo in cui i cittadini cattolici, con carità di animo, parteciperanno a questo dibattito. Un dibattito che può andare a buon fine anche per merito delle associazioni della comunità Lgbt, che dovrebbero rispettare il punto di vista della Chiesa, senza irrisione e senza presumere che si tratti di una posizione bigotta e retrograda. La questione, infatti, riguarda la visione antropologica dell’uomo e investe sul piano culturale e politico il futuro stesso dell’umanità.

Questo non significa che il ddl Zan sia accettabile in tutta la sua estensione dal punto di vista della Costituzione repubblicana. Anzi, i temi che suscitano maggiore preoccupazione sono proprio quelli che non sono stati discussi, come l’istituzione della “Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia” (art. 7), con cerimonie, incontri e iniziative scolastiche, o come la previsione dell’elaborazione di “una strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni per motivi legati all’orientamento sessuale e all’identità di genere” (art. 8), con la definizione di obiettivi e l’individuazione di misure relative all’educazione e all’istruzione, al lavoro, alla sicurezza, frutto di una consultazione permanente delle amministrazioni locali con le organizzazioni di categoria e delle associazioni impegnate nel contrasto delle discriminazioni fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere.

La critica a queste disposizioni non implica che le istituzioni pubbliche non debbano educare alla non discriminazione i giovani e la cittadinanza, quanto piuttosto che simili disposizioni non esprimono più il carattere prescrittivo del diritto, posto a tutela del principio di pari dignità sociale di tutti i cittadini. Infatti, queste configurano quel ruolo promozionale del diritto che deve allarmare sempre e tutti, quale che sia la direzione che intraprende.

L’ordinamento contemporaneo funziona male, sia se volge verso lo “stato etico” di hegeliana memoria, sia che spinga – come in questo caso – alla istituzionalizzazione della frantumazione sociale in gruppi e identità differenti, come accadeva di fare al diritto medioevale. Infatti, ove mai le norme riferite dovessero essere approvate, ogni altro gruppo sociale avrebbe il diritto di richiedere la sua “giornata nazionale” e di istituzionalizzare la sua “strategia”, e ciò comporterebbe la fine di quell’unità politica del popolo che è l’essenza dello Stato moderno e della democrazia.

Rispetto a questi temi, peraltro, è alquanto fuori luogo il richiamo al “principio di laicità” compiuto dal presidente Draghi, tanto più che la Chiesa non ha posto in discussione il potere del Parlamento italiano di approvare la legge.

A tal proposito, inoltre, serve ricordare che “il principio di laicità – così come risulta accolto dalla giurisprudenza costituzionale – implica non indifferenza dello Stato dinanzi alle religioni ma garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione, in regime di pluralismo confessionale e culturale”; e questa accezione marca la differenza tra “la sana laicità” italiana (cui faceva riferimento Pio XII) e la laicità francese, cui ha fatto richiamo il presidente Macron, che opera su una tradizione statualista volta a neutralizzare il fattore religioso, piuttosto che a includerlo e a valorizzarlo, intervenendo con la forza del diritto e, ove non basti, come spesso è accaduto, con la forza pubblica, facendo prevalere l’identità dello Stato francese, di istituzione neutrale, nei confronti delle identità religiose.

E qui va sottolineato l’errore, tipicamente ottocentesco, che commette la cultura francese, perché, nel momento in cui lo Stato entra nel gioco identitario, sia pure per asserire la sua laicità, non è più possibile una composizione che dia luogo ad una convivenza delle fedi e delle ideologie, bensì una risoluzione autoritativa del conflitto, che di fatto trasforma la laicità da mezzo a fine e, così, l’idea di laicità dello Stato, nata in Europa per salvaguardare la coscienza dei sudditi, si risolve – suo malgrado – come ha notato ripetutamente Paul Ricoeur, in una forma di credo assoluto (P. Ricoeur, La critica e la convinzione. A colloquio con François Azouvi e Marc de Launay, trad. it., Milano 1997).

Ora, non si tratta di una competizione tra Italia e Francia sulla laicità e tanto meno su quella europea che ha una sua fisionomia ben chiara, grazie all’impegno a suo tempo profuso sul tema delle “radici cristiane” dell’Europa da parte di Giovanni Paolo II. L’Europa ha sempre avuto peraltro un volto cristiano sin dalla sua origine, per merito dei cattolici che parteciparono alla sua creazione: da Robert Schuman ad Alcide De Gasperi e a Konrad Adenauer.

Ben prima che fosse scritto l’art. 2 Tue sui valori europei – la norma sottesa al discorso di Draghi nei confronti della legge ungherese –, l’immagine dell’Europa si basava su una unione che avrebbe garantito l’indipendenza europea solo promuovendo “la pace, la sicurezza e il progresso in Europa e nel mondo”.

È da ricordare, poi, che i trattati europei – come essi stessi dichiarano – sono ispirati “alle eredità culturali, religiose e umanistiche dell’Europa, da cui si sono sviluppati i valori universali dei diritti inviolabili e inalienabili della persona, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto” ed è merito di quell’articolo del Trattato richiamare quei principi e configurare un’entità nuova dai caratteri peculiari, rispetto alla quale il concetto di “Europa dei cittadini” acquista un carattere fondativo e costituzionale.

Per il vero, in Europa, oltre al governo del mercato, si tratta pur sempre di guidare “il processo di creazione di un’unione sempre più stretta fra i popoli dell’Europa”, “in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile ai cittadini, conformemente al principio della sussidiarietà”. Un progetto che nel recente passato è stato disatteso dagli Stati membri.

Quanto alle Chiese in Europa, queste sono considerate, sotto il profilo del rispetto e del non pregiudizio, nelle “disposizioni di applicazione generale” del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (art. 17), che prevedono un uguale rispetto anche per “le organizzazioni filosofiche e non confessionali”.

La stessa Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea è intrisa dei medesimi principi con il riconoscimento della “libertà di pensiero, di coscienza e di religione” (art. 10) e prevede il divieto di qualsiasi forma di discriminazione fondata, non solo “sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura”, ma anche sull’“orientamento sessuale” (art. 22.1 Cdfue).

L’impostazione dei Trattati e della Carta è perciò laica, in quanto tale la laicità europea punterebbe ad assicurare la neutralità dell’autorità, ma al contempo si preoccuperebbe del riconoscimento delle Chiese, dei diritti religiosi delle famiglie e della libertà religiosa di ogni individuo; essa estenderebbe la protezione delle autorità al fattore religioso, ma non richiederebbe loro di tenere comportamenti tali da giungere alla neutralizzazione di questo fattore, secondo i canoni di una laicità cosiddetta attiva.

Il modello europeo, in tal senso, non è il modello francese della Repubblica laica (art. 1 cost. fr.), del pensiero modernista della terza Repubblica, della legge del 1905 e della legge sul velo del 2004 (legge n. 2004-228 del 15 marzo 2004), quanto piuttosto quello della cooperazione delle Chiese con lo Stato, tipico della maggior parte dei Paesi europei.

Anche per l’Italia questa è una lezione di ritorno dall’Europa che le istituzioni italiane farebbero bene a tenere a mente.

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