L’ultima tornata elettorale si è conclusa da poco e alcuni problemi particolarmente divisivi e rimasti irrisolti tornano a farsi sentire, dettando l’agenda sia al governo che all’attuale Parlamento. La legge Zan è uno di questi e reclama una soluzione, che impegna tutte le forze politiche a fare un deciso passo avanti per definire le rispettive posizioni, alla ricerca della migliore mediazione possibile.



La scadenza per prendere in Senato una decisione senza più tergiversare è stata fissata per oggi, mercoledì 27 ottobre. Giorno in cui si dovrà decidere se rimandare il ddl in Commissione giustizia e procedere alle migliori mediazioni possibili, oppure se si vuole sfidare l’Aula e tutti i voti segreti previsti, sapendo che l’esito è incerto per gli uni e per gli altri; per i sostenitori senza riserve e per i critici ad oltranza.



Il tema della non-discriminazione per i soggetti omo-transessuali e ancor più il tema della violenza perpetrata ai loro danni non è assolutamente in discussione. Vietato discriminare chiunque per qualunque motivo: ognuno ha diritto ad ottenere dagli altri il massimo rispetto possibile, che gli spetta come persona, non per quello che pensa o che fa. E inizialmente questa era la ratio che animava la legge Zan, sulla falsariga della legge Scalfarotto approvata dalla Camera dei deputati nella scorsa legislatura, ma mai calendarizzata dal Senato. La legge Scalfarotto si muoveva su di un binario ben preciso: no alla violenza da un lato e sì alla libertà di opinione dall’altro. Una scelta che permetteva di esprimere sui temi dell’identità di genere, della omosessualità e della transessualità le proprie opinioni, anche su di un piano sostanzialmente critico, purché non costituissero una sorta di discriminazione, una violenza sotto mentite spoglie, per le persone LGBT. Sussisteva nei confronti della norma un certo sospetto per le possibili manipolazioni ideologiche a cui il dibattito dava sempre spazio.

La legge Zan, approvata alla Camera circa un anno fa, ha in un certo senso dato conferma di quei timori, proprio perché con l’articolo 7 punta ad enfatizzare l’orgoglio gay, estendendolo a tutta la comunità LGBTQ+. Lo fa con la celebrazione della giornata del 17 maggio da celebrare in tutte le scuole di ogni ordine e grado, con eventi, convegni, conferenze e proiezioni di film e documentari, considerati necessari per rimuovere pregiudizi, ma anche e soprattutto per esaltare la nuova identità di genere.

Questa enfasi messa nel celebrare l’orgoglio gay contrasta con quanto affermato all’articolo 4, laddove si accumulano sanzioni pesanti su chiunque, non condividendo la teoria del gender con tutte le sue conseguenze, assume atteggiamenti critici ed esprime il suo dissenso, per quanto urbanamente possibile, senza lasciare adito a dubbi, anche se tutto ciò appare politicamente scorretto. La legge sembra definire una cornice molto netta, le persone omo-transessuali, i loro comportamenti, le loro reazioni, meritano la massima attenzione e il massimo rispetto; non possono essere messe in discussione da niente e da nessuno. Per chi lo fa, i rischi sono tutti interamente a suo carico.  Concreto ed evidente l’incremento delle sanzioni economiche e giudiziarie che dovrebbero dissuadere anche dalla semplice critica.

Non stupisce che in questo modo l’atmosfera che si crea è quella tipica di quei Paesi in cui la censura socio-politica riduce facilmente al silenzio chi vorrebbe poter dire qualcosa di diverso da quello che appare a tutti gli effetti come il pensiero dominante, a cui non esistono alternative. Una censura di Stato bella e buona, che mentre denuncia una presunta violenza, fa materialmente violenza a tutti gli altri. È la grande contraddizione di una legge contro violenza e discriminazioni, che invece con la sua censura pseudo-protettiva moltiplica proprio le discriminazioni e apre a nuove forme di violenza.

Sopprimere l’articolo 4 è almeno altrettanto urgente come sopprimere l’articolo 7: entrambi umiliano e feriscono la libertà di pensiero e di parola; di insegnamento e di organizzazione del proprio lavoro.

Anche Enrico Letta , ora che è tornato in Parlamento, sembra essersi reso conto con maggiore realismo delle reazioni tutt’altro che convinte e determinate con cui il Pd ha affrontato questa legge. Non c’è solo il centrodestra che quasi in toto ha espresso dubbi e diffidenza; è proprio nel Pd che serpeggia lo scontento più pericoloso, che potrebbe prendere la forma del dissenso nei voti segreti. Ed è sempre lui che si è impegnato a cercare i punti di mediazione, accettando di vincere la battaglia contro odio e violenza, contro le discriminazioni, ma senza per questo subire l’accusa di essere un leader che sdogana il reato d’opinione, comprimendo la libertà di espressione nelle sue diverse forme.

D’altra parte anche tra i movimenti femministi sussistono molte perplessità su questa legge.  Basta pensare al Movimento Terf, acronimo per «Trans Exclusionary Radical Feminists». In italiano: «Femministe radicali trans escludenti». Nel Regno Unito il femminismo trans-escludente è piuttosto potente e fa riferimento a una parte del movimento femminista che evidenzia i rischi del considerare le trans non operate come donne a tutti gli effetti. A sostenere che il Ddl Zan va cambiato, quindi, non ci sono solo le forze politiche del centrodestra, c’è anche una folta schiera di organizzazioni femministe, tra cui RadFem Italia, SeNonOraQuandoLibere, Arcilesbica e Udi, che fanno parte di una rete gender critical globale, presente in 130 nazioni, basata sulla Declaration on Women’s Sex-Based Rights. Da tempo chiedono un confronto sostenendo che le questioni in gioco sono troppo importanti, toccano la radice dell’umano e la vita delle donne, delle ragazze, delle bambine e dei bambini, come ha più volte sottolineato Marina Terragni, che è la referente nazionale della rete sui diritti delle donne basati sul sesso.

Tra i critici della legge più che un timore vi è la certezza che l’inclusione del concetto di identità di genere porterebbe ad alcune aberrazioni a cui stiamo assistendo in varie parti del mondo occidentale. Gli esempi sono tanti. In Norvegia, dove è stata approvata una normativa simile a quella messa a punto da Zan, la deputata Jenny Klinge è stata denunciata per avere detto che «solo le donne partoriscono». Nelle università anglosassoni le professoresse gender critical raccontano, rischiando la carriera, la perdita di libertà accademica e il clima intimidatorio nel discutere sesso, genere e identità di genere. In America, dove le competizioni sportive femminili nelle scuole sono aperte a chiunque si dichiari donna, con ovvie conseguenze di imparità, sono ormai diversi gli Stati che hanno fatto marcia indietro.

In California 261 detenuti che si dichiarano donne hanno chiesto il trasferimento in carceri femminili dopo l’approvazione di una legge che concede ai prigionieri transgender il diritto di scegliere in quale prigione andare senza guardare all’anatomia.

L’articolo 1 della legge con le sue definizioni è destinato a creare molti più problemi di quanti non ne risolva, a cominciare dall’inedita associazione di donne, disabili e OMD-trans, come se i soggetti a rischio potessero essere messi in un unico calderone senza nessuna attenzione alla loro specificità, alla loro reale identità. Da tempo ci interroghiamo sul come la politica e le istituzioni affrontano questioni legate alle parità e alle differenze, alle discriminazioni, alla sessualità, ai nuovi modi di nascere e crescere, alla tutela della maternità, all’integrità dei bambini. E non sempre la politica ha saputo offrire risposte soddisfacenti, creando a volte più confusione che altro, come in questo caso.

Mi sono sempre schierata a sostegno di ogni azione e provvedimento che promuova l’ottenimento di diritti sociali e civili, che tuteli le persone e le comunità più esposte all’odio, alla discriminazione, alla persecuzione criminale e violenta, in ragione del sesso, dell’orientamento sessuale, o qualsivoglia altro motivo. Ma sono convinta che  il riconoscimento sociale e legislativo della differenza sessuale sia una conquista che non può essere messa in discussione da visioni sociali e culturali, che colpiscono la libertà delle donne. L’ambiguità dell’articolo 1 finisce con  l’accreditare anche in Italia la pratica della maternità surrogata, oggi vietata.

La legge Zan, al di là di quanto sostengono i suoi fautori, se approvata così com’è, apre in Italia una serie di ulteriori problematiche che minano alla base quella ecologia umana che è anche ecologia della nascita e della genitorialità, appiattendo differenze che trovano il loro significato più profondo proprio nel momento del concepimento e successivamente lungo tutto il percorso di crescita e di maturazione di ogni essere umano. Identità maschile e femminile si comprendono non solo in se stessi, ma anche nella fecondità della loro relazione, unica al mondo capace di dare vita a nuovi uomini e nuove donne.

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