“Sono un pianista di piano bar

Che suonerà finché lo vuoi sentire

Non ti deluderà

Solo un pianista di piano bar

Che suonerà finché lo vuoi seguire

Non ti disturberà”

Quanti fiumi di inchiostro si sono versati per scoprire  a chi si riferisse il giovane Francesco De Gregori, nel 1975, fino a cavalcare quella leggenda metropolitana, che cioè, quei versi fossero dedicati ad Antonello Venditti, approfittando dell’esperienza discografica comune di “Theorius Campus” di un paio d’anni prima, finita con qualche polemica di troppo. Nessuno, a quel tempo, avrebbe mai profetizzato che, dopo cinquant’anni di onorata carriera, “il Principe” sarebbe stato protagonista di un evento musicale decisamente inaspettato: far parte di una coppia piuttosto sorprendente della scena artistica nazionale; diventare sodale, lui, dall’ormai proverbiale “aplomb”, dell’attor comico più “politicamente scorretto” del cinema italiano: Luca Medici, meglio conosciuto come Checco Zalone.



Ma nulla è dovuto al caso: come documentato nel volume “Francesco De Gregori. I testi” (Giunti editore, 2020), Enrico Deregibus narra dell’incontro tra i due sul palco dell’Arena di Verona già nel 2015, durante un concerto tributo per celebrare i quarant’anni dell’album “Rimmel” dove Checco Zalone accompagnò De Gregori alla tastiera proprio nella cover di “Piano bar”.



“Sono andato a molestare Checco Zalone nella sua città, non lo conoscevo (…) da lì abbiamo fatto amicizia (…) e frequentandolo ho sentito come suonava il pianoforte. Così è venuta l’idea di fare qualcosa insieme, di utilizzare quella sua dote, sì conosciuta, ma fino ad un certo punto”.

È lo stesso De Gregori che commenta la genesi dell’album, in uscita in questi giorni. Zalone la racconta così: “Io non so leggere la musica, non ho mai fatto studi accademici, però suono da quando ero bambino, facevo il piano bar, suonavo ai matrimoni (mio padre suonava l’organo), volevo fare proprio l’orchestrale”. E così nasce il progetto di “Pastiche”.



Continua De Gregori: “È una parola antica per un disco che ha varie fonti, una contaminazione tra generi, stili e interpreti. (…) All’inizio pensavamo che avremmo fatto solo canzoni mie, poi ci sembrava di impoverire un po’ il tutto, quindi ci sono venute in mente canzoni di altri autori. È un omaggio alla musica italiana”. Il comico pugliese conferma: “Questo album è una marachella”. E De Gregori conclude: “Siccome io faccio dischi da cinquant’anni, ho trasformato la marachella in un progetto discografico”.

Ma come “suona”, dunque, “Pastiche”? È un album pienamente citazionista, una tracklist composta di “cover” (con un solo inedito del quale parleremo più avanti) partendo già dalla copertina, fotocopia di quella di un disco di Renato Carosone. Un “divertissement”, come dicono quelli bravi. Ma non ci si aspetti frizzi e lazzi: la “scaletta” rischia un certo tedio se presa a dosi massicce. E questo è il suo limite!

Qui non si vuole discutere dell’applicazione, la professionalità e la serietà (cosa ben diversa dalla seriosità che implica una buona dosa di superficialità); qui non c’è sciatteria da parte dei due interpreti principali e neppure dai (pochi) musicisti che accompagnano il duo, guidati dal fidato degregoriano Guido Guglielminetti. La scelta è stata quella di creare un tappeto sonoro che si richiamasse alle atmosfere soffuse da piano bar, e svolazzi leggeri di jazz accennato, con un pianista (Zalone) tutto intento a creare dissonanze nella linearità stilistica del catalogo di De Gregori (tanto che in alcuni passaggi vocali, lo stesso autore sembra un po’ disorientato e incerto, non essendo propriamente un interprete jazz).

“Rimmel”, “Pezzi di vetro”, “Buonanotte fiorellino”, ”Atlantide”, “Ciao, ciao”, e la più “recente” “Falso movimento” (recente per modo di dire, l’ultimo disco di inediti De Gregori l’ha licenziato più di dodici anni fa!) sono canzoni che brillano già di vita propria e alcune già rivoltate come calzini in studio e nei live.

Le altre scelte passano per Paolo Conte, Antonello Venditti e Pino Daniele e da un paio di parodie “zalonesche” (dove il comico partecipa anche vocalmente), che hanno la ‘mission’ di vivacizzare un po’ l’ambiente: la caustica “Alejandro” e la simil – celentanesca “La Prima Repubblica”, introdotta, con poca originalità, dalle prime note di “Viva l’Italia”.

Come si anticipava, non manca l’inedito: “Giusto o sbagliato”, che ha nei crediti tutti e due i protagonisti, ha un testo nostalgico, una specie di esame di coscienza che percorre la vita intera, con la musica che rimanda a “My way”: “Una canzone  –  confessa De Gregori  –  che è nella testa di tutti. In un certo periodo ho anche provato a tradurla, ma poi mi sono arreso. Quella melodia in italiano non era cantabile soprattutto tenendo presente l’interpretazione di Frank Sinatra o quella di Elvis Presley. Quindi alla fine me la sono riscritta”.

Insomma, una operazione nostalgia, un po’ passatista, senza particolari guizzi, della quale forse, non se ne sentiva il bisogno: un’occasione persa che sta dividendo i pareri dei fans. Effettivamente, la persistenza di un suono così minimale è causa di qualche sbadiglio da parte dell’ascoltatore. Anzi, a essere maliziosi, sembra un riempitivo per coprire un buco creativo, quasi un messaggio al proprio pubblico di presenza artistica attiva.

Risulta, invece, un gioco un po’ fine a se stesso, autoreferenziale, nel quale lo spettatore pagante è poco coinvolto: a volte la sola professionalità non basta e qui l’empatia è ai minimi termini, anche se a tanti, legittimamente, il prodotto piacerà.

D’altronde:

“Solo un pianista di piano bar

Che suonerà finché lo vuoi sentire

Non ti disturberà

Solo un pianista di piano bar

Che suonerà finché lo vuoi seguire

Non ti deluderà”.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI