Nelle chat dell’opposizione la sconfitta è quella degli “altri”. Ha perso l’arrogante duo Renzi-Calenda che sognava un grande centro che andasse a pari coi rivali del Pd. Ha perso il bollito Pd, i cui candidati non erano aggreganti come supponevano. Ha perso il confusionario Conte che con il nuovo corso dei 5 Stelle vede svanire la sua ambizione di leader di tutta l’opposizione. Insomma, tutti sono contenti perché hanno perso gli altri. Eppure l’opposizione non avrebbe bisogno di ripassare (a patto di averli letti) qualche testo di scritti politici (che oggi giacciono in scatoloni polverosi), per capire un concetto fondamentale sugli “altri”. Basterebbe il grande Umberto Tozzi, e in tempi di Saremo ci sta, che già nel 1991 cantava che “gli altri siamo noi”.
Perché ha perso inevitabilmente tutto il centro-sinistra, sparito nelle idee, ed il cui popolo ha disertato le urne. È sparita l’idea stessa di una opposizione di governo, in condizione di essere alternativa al centrodestra. È sparita dal linguaggio dei presunti leader ogni idea di comunità estesa oltre i propri confini elettorali, è svanita ogni speranza di solidarietà nel fare politico della classe dirigente di quei partiti. Ciascuno di loro pensa di essere “essenziale”, “centrale”, “popolare” ma alla fine dei conti non sanno costruire neppure un misero cartello elettorale comune per governare una regione.
Se poi vi dicono che lo hanno fatto apposta a non vincere, per far perdere “gli altri”, non credetegli. La verità è che non avendo alcuna idea comune, antica o moderna che sia, sul futuro della società, non avendo l’opposizione la capacità di leggere la società attuale (quella post pandemica, divenuta egoista, con visoni a breve, più cruda), ognuno si è rinchiuso nel suo egoistico calcolo. Basta fare un punto in più di un altro, contare mezzo eletto aggiunto, scippato grazie ai resti elettorali, per continuare a dirsi che servono a qualcosa.
La verità è che il centrosinistra nega se stesso. Pretende di non esistere più, di andare verso altre forme di geometra elettorale, oltre il bipolarismo, oltre la contrapposizione con la destra. I suoi leader sognano praterie di riformisti, vagonate di voti popolari, orgogliose carovane di “compagni” finalmente liberi di votare per il partito senza più gli odiati alleati. Ma esiste nella società, con tutta evidenza, un elettorato che non ha alcun interesse a questa competizione, che non ne comprende i motivi e che non apprezza questo assetto spacchettato di consenso da dare “a geometria variabile”.
Il corpo elettorale “non di destra” non è evidentemente così spaventato da andare a votare per chi non è in grado di fare proposte di governo credibili. E sceglie di stare a casa. Annoiato dalla furiose litigate tra Calenda e Conte, estraneo all’odio tra renziani e piddini. In tempi di egoismo, e con egoismo si sono comportati tutti, da Renzi a Conte, prevale la scelta di far governare gli egoismi più individualistici che il centrodestra (tra paura per l’immigrazione, regionalismo differenziato, ambiguità in Europa) declina in modo più credibile.
Se questi agglomerati elettorali che si sono creati dalle ceneri del centrosinistra non sono in grado fare sintesi tra loro, il risultato è che il loro elettorato si liquefà. E restano nelle urne i voti di adepti e interessati, un pezzo di società diffuso ma non ampio abbastanza da dare a quei partiti la speranza di vittoria.
E forse il punto è quello. Senza una visione comune, frutto di furibonde liti preventive, di congressi veri su idee vere, senza la capacità di fare sintesi come opposizione, il governo delle regioni e del Paese è nelle salde mani del centrodestra. 15 regioni, governo nazionale, tutto nelle loro mani, con la Lombardia che per 33 anni avrà avuto una, e solo una, coalizione al governo.
Ecco vi diranno che hanno perso gli altri, che “la colpa è loro”, che ha sbagliato quello accanto, ma non li sentite mai dire “noi, l’opposizione”. Ed in politica fino a quando un io non diventa noi, si è destinati a perdere ed a far perdere, peccato capitale di fronte alla storia, le idee in cui si crede. Se ce ne sono. Il sospetto è che siano tutti in partita solo per interessi meno alti del governo del Paese, della rappresentanza dei cittadini a cui si rivolgono. E questo sospetto è avvalorato dalla pervicace volontà di non confrontarsi, di aspettare le prossime elezioni (europee 2024) per contarsi di nuovo e sperare nell’errore degli altri, nel cambio della società. Giocando a rimorchio, ognuno nel suo ideale fortino.
Nel frattempo il Paese è in altre mani. Le regioni più politicamente rilevanti anche. E loro sono sempre lì, seduti, immobili, arrabbiati con il vicino di banco, esperti a dare la colpa agli “altri”. Senza mai sentirsi noi, senza mai fare, per davvero, politica. E da qui si deve ripartire, perché il futuro potrà essere solo di chi, tra questi o oltre questi leader, avrà la capacità di dire “noi” e di farlo sacrificando prima di ogni casa il suo bene più prezioso: il suo “io”.
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