È record. Ancora una volta. Nonostante un nuovo Esecutivo, nonostante le consuete frizioni tra partiti politici, nonostante il lasciarsi alle spalle un eventuale “peggio è passato”, quello che non muta le proprie sembianze ai continui avvicendamenti rimane sempre e sola una variabile divenuta, però, ormai una costante: il debito.



A febbraio, come certificato da Bankitalia attraverso la sua consueta pubblicazione Finanza pubblica: fabbisogno e debito, l’ammontare del debito dell’Amministrazione Pubblica italiana si è attestato a oltre 2.772 miliardi di euro conseguendo, di fatto, il nuovo record per l’intero stock. L’aumento ha colpito in particolar modo le amministrazioni centrali, mentre il saldo relativo alle amministrazioni locali riporta una variazione pressoché invariata.



La cifra, come riportato, inanella una serie storica che nel corso degli ultimi anni (2019-2022) ha registrato un ridimensionamento percentuale delle singole variazioni YOY (Year Over Year): dagli iniziali 2.409 miliardi del 2019 abbiamo potuto assistere a un primo incremento del 6,75% nel 2020, successivamente un ulteriore segno più ma di entità diversa pari al 4,09% (2021) per, infine, riscontrare un deciso assottigliamento al 3,15% concernente la soglia monstre di oltre 2.762 miliardi del 2022. Ovviamente, pur beneficiando di tale entità percentuale in continua discesa la base di calcolo (rif. il debito complessivo) ha comunque assunto di volta in volta, con il trascorrere dei mesi, e degli anni, le fattezze del pesante fardello oggetto di odierno commento.



Dei 21,6 miliardi di euro, quale incremento rispetto a gennaio, nel rapporto di Banca d’Italia emerge come ci sia stato il contributo dell’effetto complessivo di scarti e premi all’emissione e al rimborso, la rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e la variazione del tasso di cambio. Sostanzialmente, però, questa quota denominata “Altro” incide per un residuale 0,1% rispetto all’intero debito contratto.

Duole, anche oggi, apprendere come ci sia un ulteriore dito puntato nei confronti dei già da noi ripresi titoli indicizzati all’inflazione. Infatti, se come riportato nel Def 2023, la loro futura sorte non sarà delle più rosee, qualche dubbio sulla potenziale influenza (significativa) di tali strumenti finanziari sul debito complessivo appare assumere – certamente – un’eccessiva importanza. Tenuto conto, però, che anche Banca d’Italia riporta nel proprio documento questo puntuale rimando a siffatto titolo di Stato in circolazione sorge, quindi, spontanea la preoccupazione più tangibile: quella in capo ai detentori finali ovvero i risparmiatori. A questa intera e vasta platea, pertanto, riteniamo doveroso riprendere le parole presenti nel recente e attuale Documento di economia e finanza del Governo: «Nel 2023 la spesa per interessi è prevista in riduzione rispetto al 2022, soprattutto per effetto di un calo della rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione, coerentemente con l’ipotesi di una progressiva riduzione del tasso di inflazione a livello nazionale ed europeo».

Le parole sono importanti (sempre) e, da quanto scritto, emerge un chiaro e paradossale alert al pari di una verosimile raccomandazione di investimento da parte del Governo tanto più rilevante perché circoscritta nel tempo (ovvero l’anno in corso) e nella potenziale entità (rif. «soprattutto»).

Se così sarà, lo Stato ridurrà il proprio debito, mentre gli investitori…

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