Anche Standard & Poor’s, dopo Fitch, ha rimandato a ottobre il governo italiano. Una mossa prudente e realistica: le due principali agenzie di rating non vogliono fare da fuochiste, ma nemmeno da pompieri. I tizzoni sono ardenti e a spegnerli dovrà essere la prossima Legge di bilancio che, a questo punto, si carica di aspettative e significati enormi, diventando la vera prova della verità, se non proprio un’ordalia economica e politica.
La conflittualità tra Movimento 5 Stelle e Lega si spiega così, più ancora che con le elezioni europee. Chi si assumerà il compito di far tirare la cinghia agli italiani? Chi tra due partiti andati al potere promettendo di spendere e spandere, negando l’evidenza, costringendo il ministro dell’Economia a prevedere una crescita dell’1,5% mentre era già in corso una recessione? E’ questa la domanda chiave alla quale nessuno, né Matteo Salvini né Luigi Di Maio, riesce a dare una risposta. Cadute le illusioni bisognerebbe dire la verità, ma dopo anni di false notizie e di propaganda spicciola la verità non è più un valore, non solo in politica, ma ormai nemmeno nella vita quotidiana.
Eppure di segnali ne sono arrivati a bizzeffe, anche la scorsa settimana. Il Fondo monetario internazionale, Mario Draghi e il bollettino della Bce, l’analisi molto chiara di S&P, tutti mettono l’accento sul debito che sale, perché troppa spesa pubblica viene finanziata in deficit, e il Pil ristagna.
Ma il vero semaforo rosso come sempre lo hanno accesso i mercati finanziari, cioè quelli che maneggiano i soldi dei risparmiatori e li investono in titoli di Stato italiani. La spia luminosa si chiama, com’è noto, spread. I Btp decennali italiani sono superiori di 260 punti base rispetto ai Bund tedeschi, il cui tasso è vicino a zero, ciò indica un tasso di interesse del 2,59% da pagare ogni anno sui titoli italiani emessi per coprire il nuovo debito o per rinnovare quelli in scadenza. Non sono noccioline, quest’anno superano i 200 miliardi di euro. La Spagna ha uno spread pari a 106, il Portogallo 116. Peggio di noi stanno la Grecia, la Romania, l’Ungheria. Ma l’Italia peggiora, non migliora. Il paradosso è che lo spread greco si riduce, quello italiano no. Se così stanno le cose, quel che temono gli analisti, sia quelli delle istituzioni internazionali, sia quelli delle banche e delle Borse, è qualcosa che per il momento è meglio non pronunciare ad alta voce, ovvero che l’Italia si trovi a non poter ripagare il debito. La Banca d’Italia lo ha sempre escluso e continua a farlo, tuttavia le cifre sono allarmanti.
Esiste una formuletta che serve da bussola sul mercato e dice che per essere solvibile una famiglia, un’impresa, uno Stato deve portare a casa ogni anno un reddito pari o superiore all’ammontare degli interessi sul debito. Se devo pagare il 2,6%, tanto per stare al nostro caso, il prodotto lordo italiano in termini nominali, cioè crescita reale e monetaria, deve aumentare quanto meno del 2,6%. Secondo le stime del Def, la crescita reale sarà dello 0,1% quest’anno e dello 0,6% nel 2020, il deflatore ora è attorno all’1% e si avvicinerà all’1,9% l’anno prossimo.
Dunque il Pil nominale che nel 2018 è stato pari a 1.753 miliardi di euro, crescerà dell’1,1% solo per effetto dell’inflazione. Oggi come oggi manca un 1,6% per pareggiare l’indice di sostenibilità, che non verrà raggiunto nemmeno nel 2020. Se l’Italia fosse una famiglia non le basterebbe ridurre le spese, dovrebbe vendere i gioielli o le case, se fosse un’impresa dovrebbe vendere beni patrimoniali e attività. Uno Stato ha una risorsa in più: le imposte.
Il debito pubblico diventa sostenibile, ecco l’altra formula, quando le entrate fiscali superano di almeno un punto percentuale il costo del debito. Il loro andamento è in funzione del reddito nazionale, quindi in una fase di stagnazione quell’aumento è impossibile, a meno di non imporre un salasso che avrebbe un effetto ancora peggiore. Insomma, stiamo cadendo nella trappola del debito, e la sostenibilità comincia a diventare a rischio.
E’ questo che la Bce, il Fmi, la Ue, le agenzie di rating dicono, per ora solo con linguaggio tecnico. Per fare un sommario conto della spesa, in autunno bisogna recuperare una ventina di miliardi di euro, da aggiungere ai 23 miliardi necessari per sventare l’aumento dell’Iva, che nessuno a parole vuole, ma che nessuno adesso è in grado di evitare. Stiamo parlando di una stangata da 43 miliardi, a bocce ferme, cioè se le cose non peggiorano.
E chi lo spiega agli elettori 5 Stelle che chiedono fette di una torta che non c’è o ai leghisti che vorrebbero meno imposte e più pensioni, rifiutando di dire come pagarle?