Nei giorni scorsi un amico, rievocando il “gioco” della penombra – che risale poi al mito della caverna di Platone – notava come anche oggi, gli stessi drammatici avvenimenti che stiamo vivendo possono essere visti avvolti nelle tenebre o rischiarati da una luce, magari tenue. Tutto dipende dalla nostra posizione: se voltiamo le spalle alla luce vediamo solo le ombre della realtà e domina l’oscurità, se ci giriamo ci accorgiamo che c’è una luce che rischiara la realtà.
Nella penombra di questa crisi, da dove possiamo ripartire per vederci chiaro? Ho cercato una risposta, del tutto parziale e provvisoria, muovendo tre piccoli passi: inizialmente cercheremo di capire come si presentava l’economia italiana agli inizi del 2020, prima della pandemia; poi cercheremo di valutare i danni provocati dal virus; infine tenteremo di esaminare i provvedimenti assunti dalle autorità preposte a guidare la ripresa economica.
Agli inizi del 2020, prima della pandemia, l’economia italiana si presentava come una grande economia, una delle più grandi al mondo, che da vent’anni non cresceva più, o cresceva poco, o cresceva molto meno dei partner europei, afflitta da un’alta disoccupazione, un enorme debito pubblico e ampi divari sociali e territoriali.
Possiamo immaginarla come un’auto di grossa cilindrata, spaziosa, elegante, che fino al 1995 aveva viaggiato forte raggiungendo e superando vetture meglio equipaggiate e che poi, improvvisamente, aveva iniziato a rallentare e sbandare a causa di un motore che perdeva colpi.
Sono sufficienti pochi dati. Nell’ultimo ventennio (dal 2000 al 2018) il Pil reale pro capite (il reddito medio per abitante) dell’Italia, che in passato si era avvicinato a quello dei Paesi più avanzati, è rimasto sostanzialmente invariato, mentre quello degli altri Paesi è aumentato e, per esempio, quello della Germania è cresciuto quasi del 25%. Nel decennio della Grande Recessione (dal 2008 al 2018) l’Italia è stata l’unica, insieme alla Grecia, a non essere tornata ai livelli di produzione pre-crisi. Il tasso di disoccupazione è rimasto elevato, sensibilmente più alto rispetto ad altri Paesi europei: alla fine del 2019 il tasso di disoccupazione si aggirava intorno al 10% in Italia e scendeva intorno al 3% in Germania. Infine, il rapporto debito/Pil, che in base ai famosi parametri di Maastricht non dovrebbe superare il 60%, alla fine del 2019 era pari al 134,8% in Italia ed era sceso sotto il 60% in Germania.
Ma perché, a un certo punto, l’Italia ha smesso di crescere? La crescita economica dipende da due grandi fattori: il numero degli occupati e la loro produttività. Più esattamente, dipende dalla percentuale di coloro che, essendo in condizione di svolgere un’attività lavorativa, la svolgono effettivamente (tasso di occupazione) e dal valore aggiunto (reddito) che mediamente un lavoratore produce in un’ora (produttività oraria). Alla fine del 2019 il tasso di occupazione era pari al 59% in Italia e al 76% in Germania. L’Italia sconta le mancate o parziali riforme del mercato del lavoro e un sistema fiscale inefficace che spinge lavoratori e imprese a entrare nell’illegale economia sommersa. Tra il 1995 e il 2018 la produttività del lavoro è aumentata in Italia dello 0,4% a fronte di una media europea che si avvicinava al 2%. Le ragioni sono molteplici: le principali riguardano il nanismo delle imprese (troppo piccole per investire nelle nuove tecnologie), la declinante quota di reddito nazionale destinata a potenziare la dotazione di capitale per i lavoratori e soprattutto le inefficienze del sistema-paese.
Proviamo a immaginare un’impresa del profondo sud, impigliata nella rete delle mafie o di una inefficiente burocrazia, che miracolosamente potesse essere trasferita in Toscana o in Veneto. Quella stessa azienda, ceteris paribus, diventerebbe più produttiva potendo beneficiare di una rete di trasporti e di servizi pubblici più efficienti. E proviamo a immaginare l’intero sistema produttivo nazionale che potesse essere localizzato in un Paese efficiente: tutte le imprese diventerebbero istantaneamente più produttive grazie a quella che gli economisti chiamano Total Factor Productivity (Tfp).
Gli istituti di ricerca e la stessa Unione europea, oltre al tasso di crescita effettivo (il Pil registrato a fine anno), calcolano anche il tasso di crescita potenziale relativo al volume massimo di beni e servizi che un Paese sarebbe in grado di produrre se utilizzasse in modo ottimale le risorse disponibili, senza generare pressioni inflazionistiche. Ebbene, il tasso di crescita potenziale stimato per l’Italia si aggira intorno allo 0,7% a fronte di una media europea doppia, che oscilla intorno all’1,5%.
Negli ultimi dieci anni la bassa crescita, effettiva e potenziale, ha compresso sia i consumi delle famiglie che gli investimenti delle imprese. Al tempo stesso, l’alto debito pubblico ha limitato i margini di manovra per politiche fiscali espansive. L’unica variabile che è cresciuta, tenendo in piedi il Paese, sono state le esportazioni, soprattutto del vecchio e nuovo Made in Italy.
Alcuni studiosi della Banca d’Italia hanno provato a immaginare l’Italia nel 2061. La popolazione invecchia e decresce riducendo il numero di lavoratori che potrebbero produrre ricchezza. In assenza di correttivi, e cioè senza un’adeguata politica demografica e migratoria, la produttività del lavoro, che negli ultimi vent’anni è stata pressoché ferma, dovrebbe aumentare sensibilmente per compensare la declinante forza lavoro. In caso contrario, il Pil si ridurrà del 24,4% e il Pil pro-capite del 16,2%.
In breve, l’economia italiana entra nel 2020 come una macchina ancora bella ma in pericolosa frenata. Il paradosso, o meglio, l’amara verità, è che la macchina va piano, ma va al massimo.
Poi accade l’inimmaginabile. Se non fosse di cattivo gusto, potremmo dire che la macchina, in pericolosa frenata, subisce un duplice “tamponamento”. Gli economisti, per spiegare eventi come quelli che stiamo vivendo, usano la parola shock, un fenomeno esterno e imprevisto. Esistono shock negativi (e positivi) dal lato dell’offerta e della domanda aggregata. La guerra, per esempio, è uno shock negativo dell’offerta: cadono le bombe che colpiscono anche gli impianti delle fabbriche e si riduce la capacità produttiva di un sistema economico. Le politiche economiche restrittive, come quella di Amato del 1992 o di Monti del 2011, rappresentano invece shock negativi della domanda aggregata: aumentano le imposte e si riduce la capacità di spesa di famiglie e imprese.
Il coronavirus è un devastante, duplice, shock negativo dell’offerta e della domanda aggregata. È stato innanzitutto un tremendo shock negativo dell’offerta. Nei due lunghi mesi di lockdown la macchina produttiva del Paese si è fermata. Semplicemente abbiamo smesso di produrre, salvo i beni di sussistenza (non direi essenziali perché un libro, per tutti, e l’eucarestia, per i credenti, sono essenziali quanto il pane). A un certo punto abbiamo sperato, ci siamo illusi che, superata l’emergenza, tutto sarebbe tornato come prima. In fondo non erano cadute bombe, gli impianti erano intatti e sarebbe stato sufficiente accendere l’interruttore per riavviare la produzione. E invece è come se fossero cadute bombe che hanno distrutto una parte della nostra capacità produttiva. Oggi torneranno al lavoro circa quattro milioni di lavoratori, ma non troveranno lo stesso sistema produttivo che avevano lasciato all’inizio del lockdown. I posti disponibili in autobus, metro, treni, aerei e in seguito in ristoranti, alberghi, cinema, teatri, spiagge, aule scolastiche e universitarie e purtroppo in altri luoghi di lavoro saranno ridotti drasticamente, speriamo solo temporaneamente.
Il devastante shock dell’offerta, riducendo la produzione e il reddito nazionale, ha finito per contagiare anche il lato della domanda aggregata abbattendo il consumo delle famiglie e gli investimenti delle imprese.
Anche in questo caso sono sufficienti pochi dati, tratti dal Documento di economia e finanza approvato il 24 aprile scorso. Il Governo prevede nel 2020 una riduzione del Pil dell’8%. È una monetario internazionale ha previsto il 9,1% e altri istituti di ricerca una contrazione ancora più ampia. Il Pil si ridurrà grosso modo del 10% pari a circa 180 miliardi di euro. Le conseguenze sono prevedibili, anche se non facilmente quantificabili. Aumenterà il debito pubblico sia per la riduzione del gettito fiscale sia per l’aumento della spesa pubblica. E saliranno pericolosamente altri indicatori. Il Governo prevede un aumento del rapporto debito/Pil dal 134,8% al 155,7%, del rapporto deficit/Pil dall’1,6% al 10,4%, del tasso di disoccupazione dal 10% all’11,6%. Aumenteranno debiti, crisi e fallimenti aziendali; crescerà la povertà. Il contagio alla domanda aggregata è documentato da altri eloquenti dati. Il Governo prevede un calo dei consumi del 7,2%, degli investimenti del 12,3% e delle esportazioni del 14%. In breve, l’economia italiana, già in difficolta, è colpita da un duplice grande shock che riduce, contemporaneamente, la capacità produttiva e di spesa del sistema economico.
Che fare? Il Governo, a oggi, ha programmato uno stanziamento di circa 180 miliardi di euro: 25 nel decreto Cura Italia, 55 nel decreto aprile, che (ovviamente) sarà approvato a maggio, e altri in via di definizione. Probabilmente serviranno ulteriori fondi. Chi sta aiutando l’Italia e chi continuerà a farlo? L’Europa, che oggi ha imparato la lezione della precedente crisi.
La Commissione europea ha immediatamente sospeso il Patto di stabilità e crescita consentendo ai singoli Paesi di indebitarsi nella misura necessaria. Ha poi sospeso la normativa che vietava gli aiuti di Stato consentendo ai singoli governi di soccorrere le imprese in crisi. Ha infine predisposto un intervento finanziario senza precedenti che, complessivamente, si aggira intorno ai 3.000 miliardi di euro, di cui 1.500 miliardi per il Recovery Fund (una spesa finanziata con l’emissione di titoli garantiti dalla stessa Commissione europea), 540 miliardi tra Mes (il Meccanismo europeo di stabilità), Sure (il piano di sussidi ai disoccupati) e Bei (la Banca europea degli investimenti) e 750 miliardi destinati dalla Banca centrale europea all’acquisto di titoli del debito pubblico degli Stati nazionali.
L’Italia non ha ancora deciso se e a quali fondi europei accedere. Al momento sappiamo che potrebbe ottenere circa 17 miliardi dal programma Sure, 36 dal Mes, 40 dalla Bei come anticipazione del Recovery Fund: in totale circa 93 miliardi. Inoltre, il Governo italiano sta beneficiando dell’aiuto della Bce. Per un Governo, indebitarsi significa emettere titoli del debito pubblico (pezzi di carta) che possono essere acquistati, in cambio di euro o di altre valute (pezzi di carta che equivalgono però a beni e servizi reali) da famiglie e banche: a fine anno, la Banca centrale europea avrà nel proprio portafoglio circa 575 miliardi di titoli italiani (e il Governo avrà avuto a disposizione altrettanti miliardi di euro stampati dalla Bce per provvedere a beni e servizi reali). Ovviamente il gGverno italiano può rinunciare a tutto questo e cercare altre fonti di finanziamento (quali?). Quello che non può fare è rinunciare ad aiutare le famiglie, i lavoratori e le imprese italiane.
Al di là di ogni tecnicalità, c’è un punto, meglio, un principio, che mi preme riaffermare e che a mio giudizio dovrebbe regolare il rapporto tra imprese, governi e Unione europea: è il principio di sussidiarietà, concepito dal magistero sociale della Chiesa e recepito, sia pure in una versione particolare, dal Trattato di Maastricht. Il principio di sussidiarietà dovrebbe essere applicato per ripartire il costo della pandemia tra imprese, governi nazionali e Unione europea. Non illudiamoci: serviranno contributi a fondo perduto per imprese e famiglie. Non basteranno i prestiti e la liquidità. Serviranno entrambi, come nel vecchio Piano Marshall: loans (prestiti) e grants (aiuti a fondo perduto). Le imprese sono in crisi non per mancanza di liquidità, ma perché i loro ricavi totali si sono drasticamente ridotti, a fronte di costi che sono rimasti sostanzialmente invariati. Hanno bisogno di liquidità per sopravvivere nell’emergenza, ma, per evitare il fallimento e la chiusura, sarà necessario che qualcuno integri i mancati ricavi.
Ecco come potrebbe essere applicato il principio di sussidiarietà. L’Europa assume su di sé una parte del debito degli Stati nazionali, per esempio per finanziare progetti di interesse comune già in esecuzione (opere infrastrutturali), in programma (la transizione all’economia verde e sostenibile) o da programmare (Recovery Fund). Gli Stati nazionali, alleggeriti in parte dal giogo del debito e disponendo di un ampio margine di discrezionalità, si fanno carico di una parte del debito di famiglie e imprese. In concreto, il Governo italiano dovrebbe tempestivamente agire su due fronti: vigilare sull’effettiva erogazione dei prestiti, offrendo le necessarie garanzie, e fornire contributi a fondo perduto. Questa volta le perdite non derivano da errori di gestione aziendale o di politica economica, ma da una drammatica calamità naturale. L’inazione, il non fare nulla, provocando il fallimento di tante aziende e il licenziamento di milioni di lavoratori, determinerebbe comunque un enorme aumento della spesa pubblica assistenziale. Meglio allora prevenire i fallimenti e aiutare le imprese a restare in piedi e a rimettersi in cammino.
La crisi è anche una drammatica occasione per varare, finalmente, un grande piano di investimenti finalizzati a rinnovare il Paese. Non illudiamoci: non sarà sufficiente la ripresa spontanea del mercato. Non basteranno le esportazioni, che rappresentano soltanto il 30% del Pil e che sono prevalentemente dirette verso Paesi in crisi come noi. Servirà un grande progetto per orientare l’enorme risparmio privato (italiano ed europeo) verso impieghi produttivi, pubblici e privati. In concreto, pensiamo innanzitutto a salvare le imprese esistenti, con prestiti e contributi a fondo perduto (meglio con una radicale detassazione che con sussidi a pioggia). Pensiamo, parallelamente, a un piano strategico di investimenti infrastrutturali (che diventano poi commesse per imprese private che generano redditi, occupazione e consumi) per rinnovare tutte le reti su cui viaggiano merci, persone, idee e che finiscono per accrescere quella Produttività totale dei fattori da cui dipende l’efficienza del sistema-paese e quindi la competitività internazionale delle imprese: porti, ponti, ferrovie, strade, scuole, fibre ottiche, impianti energetici verdi… Rendiamo più efficace lo smart working, l’e-commerce, la didattica a distanza, la sicurezza nei luoghi di lavoro. E infine, approfittando dell’emergenza e ricercando uno spirito unitario delle forze politiche, variamo una serie di riforme strutturali in materia di fisco, burocrazia, welfare, giustizia, immigrazione.
È assurdo esigere l’aiuto dei ricchi tedeschi e tollerare l’evasione fiscale dei ricchi italiani. È assurdo essere privi di oltre 200 mila lavoratori agricoli e avere migliaia di immigrati clandestini che sarebbero disposti a lavorare in agricoltura. Chi si prenderà cura dei nostri anziani se non sosterremo il mondo del terzo settore? Insomma, la crisi può essere davvero un’opportunità per costruire una nuova economia, più a misura d’uomo.
Da dove ripartire, dunque? Dalla responsabilità di ciascuno verso tutti, resa possibile dalla rinnovata coscienza che l’altro, chiunque sia – ricco o povero, uomo o donna, italiano o islandese, ebreo, musulmano o cristiano – ha un valore infinito e che esiste un bene comune che unisce tutti, un bene che, per essere realizzato, esige il contributo di singoli, gruppi sociali e istituzioni pubbliche.
All’inizio della crisi divennero popolari due slogan, che sono stati poi un po’ abbandonati e dimenticati: il primo – “andrà tutto bene” – può essere forse accantonato, se non altro per un sano realismo (o per scaramanzia). Il secondo va invece riscoperto e tenuto in vita perché profondamente vero: “nessuno si salva da solo”. È proprio così: ognuno è indispensabile. Le istituzioni dettino le regole – poche e chiare – e si fidino dei cittadini. Poche regole e tanta fiducia nella responsabilità personale, ecco quello che serve. Il Governo italiano, d’intesa con l’Unione europea, predisponga un comune piano d’azione coinvolgendo enti locali, terzo settore e associazioni rappresentative di lavoratori e datori di lavoro. È l’unico modo per uscire dalla crisi, costruire una nuova economia e proteggere il bene comune dell’Italia.
Mi piace concludere citando alcune parole del Compendio della dottrina sociale della Chiesa (parr. 167-168): “Il bene comune impegna tutti i membri della società: nessuno è esentato dal collaborare, a seconda delle proprie capacità, al suo raggiungimento e al suo sviluppo … La responsabilità di conseguire il bene comune compete, oltre che alle singole persone, anche allo Stato, poiché il bene comune è la ragion d’essere dell’autorità politica. Lo Stato, infatti, deve garantire coesione, unitarietà e organizzazione alla società civile di cui è espressione, in modo che il bene comune possa essere conseguito con il contributo di tutti i cittadini. L’uomo singolo, la famiglia, i corpi intermedi non sono in grado di pervenire da se stessi al loro pieno sviluppo; da ciò deriva la necessità di istituzioni politiche, la cui finalità è quella di rendere accessibili alle persone i beni necessari – materiali, culturali, morali, spirituali – per condurre una vita veramente umana. Il fine della vita sociale è il bene comune storicamente realizzabile.”
Nella penombra della crisi, cerchiamo di guardare verso la luce.