Il debito pubblico italiano scende per il secondo mese consecutivo. A settembre, il nostro infinito fardello patriottico ammontata a 2.741 miliardi di euro: questo il saldo riportato nella periodica pubblicazione di Banca d’Italia “Finanza pubblica: fabbisogno e debito”. Ad analizzare puntualmente le cifre diffuse, però, emerge chiaramente come un cosiddetto “debito cattivo” (poiché in capo allo Stato italiano) sia invece visto in rialzo di ben 1,9 miliardi. Pertanto, facendo le dovute proporzioni attraverso una corretta classificazione delle voci tra attività e passività, a ben vedere, il nostro debito pubblico – di fatto – si è incrementato ulteriormente di questi quasi due miliardi.
Nello specifico, e ci spiace per il tecnicismo che sicuramente non agevola i non addetti ai lavori, è vero che la riduzione mensile è stata di 16,2 miliardi poiché riconducibile al fabbisogno (13,8 miliardi) ampiamente compensato dalla riduzione delle disponibilità detenute in liquidità dal Tesoro (ridotte a 31,9 miliardi rispetto ai precedenti 48,1). Ma, a conti fatti, è ancor più vero come «l’effetto degli scarti e dei premi all’emissione e al rimborso, della rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione e della variazione dei tassi di cambio» abbiano complessivamente incrementato lo stesso debito di 1,9 miliardi.
Concretamente, se la prima riduzione è verosimilmente assimilabile a una riduzione di natura economica, la seconda, invece, è maggiormente assimilabile a una variabile finanziaria che, stando alle recenti proiezioni, vedrà un’ulteriore crescita poiché direttamente correlata al costo del finanziamento (rif. titoli di Stato indicizzata all’inflazione) che le casse dell’Italia dovranno prossimamente sostenere.
L’attuale ammontare complessivo del debito pubblico finora contratto mostra decisamente una crescita monstre se raffrontato ai valori di trent’anni fa. Allora, infatti, la complessiva dote ammontava a 774 miliardi rispetto agli odierni 2.741 miliardi.
Sempre guardando al passato, un altro elemento che implica una maggiore responsabilità sulle spalle del nostro Paese (e pertanto del Governo) è quello concernente la detenzione dello stesso debito pubblico. Nel lontano 1995 la quota di debito lordo detenuto “da residenti” era l’85,58% mentre la restante (dei cosiddetti “non residenti”) era il 14,42%. Nel corso degli anni, questo rapporto, ha però subito un serio e significativo ridimensionamento. Osservando i “non residenti”, l’ammontare da loro posseduto aveva raggiungeva il 41,09% nel giugno 2008 per, successivamente, “crollare” al 30,63% nel giugno 2012 (rif. crisi finanziaria italiana).
Oggi, invece, la quantità di debito nostrano in “mani estere”, equivale al 28,4% per un importo di oltre 650 miliardi (650,157) di euro.
Focalizzando l’attenzione a quest’ultima dinamica, e presa come riferimento la crisi italiana del 2011-2012, appare evidente come lo Stato italiano abbia subito un vero e proprio abbandono da parte degli investitori esteri. Una lenta e inesorabile solitudine che, con il trascorrere dei mesi, ha lasciato “mani libere” (purtroppo ammanettate) ai vari Governi che si sono alternati negli anni. Un susseguirsi di debito per rifinanziare il precedente debito. Una sorta di richiamo ai più tradizionali schemi di indebitamento che, beneficiando dell’assenza di controllo, vedrà l’ammontare complessivo crescere “in maniera naturale” senza alcun limite.
Nel corso della storia economica e finanziaria dell’Europa abbiamo potuto assistere a numerosi interventi di politica interventista con lo scopo di arginare questa triste corsa alla spesa (pubblica). Anche le recenti anticipazioni sulle linee guida per la nuova versione del Patto di stabilità sono obbligatoriamente orientate verso questa direzione. In ottica futura: l’esito quale potrà essere? Senza alcuna presunzione, la risposta immaginiamo di conoscerla.
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