Confesso che ho fatto fatica, per mettere a fuoco che cosa davvero c’è di sconvolgente, nella notizia di un commando di Isis che ha decapitato un talebano e ha postato il video dell’esecuzione, dove tra l’altro si vedono alcuni bambini che applaudono al gesto.
Che cosa ci urta, in fondo? La decapitazione? Ma per secoli, per millenni il taglio della testa è stato un privilegio. Nell’antica, civilissima Roma, la decapitazione era il privilegio del civis romano; gli altri, gli stranieri, erano condannati alla crocifissione o alle belve del circo. Nell’Europa medievale e moderna, la decapitazione era il privilegio degli aristocratici; gli altri, i popolani, erano condannati all’impiccagione. Con qualche eccezione, però. Nella civilissima Inghilterra medievale e moderna, per esempio, il privilegio nobiliare decadeva se il reato era tradimento della corona. Il traditore della corona infatti, qualunque fosse il suo rango, era “hanged, drawn and quartered”: impiccato, sventrato e squartato (chi volesse sapere che cosa significhi quest’espressione non ha che da riguardarsi le sequenze finali di Brave heart). Tra gli altri, “impiccati, sventrati e squartati” finiscono nel 1606 Guy Fawkes e compagni, responsabili della “congiura delle polveri” contro Giacomo I. Più clemente, nel 1620 Ferdinando II d’Asburgo riconobbe ai 27 nobili boemi responsabili della rivolta contro la corona imperiale il loro aristocratico privilegio, e si limitò a farli decapitare in pubblico nella Piazza della Città Vecchia, a Praga.
È allora la presenza all’esecuzione capitale dei bambini, che ci infastidisce? Ma a godere lo spettacolo dei nobili decapitati in piazza c’era tutta la città, vecchi donne e bambini compresi. Per secoli, per millenni forse le esecuzioni capitali sono state uno spettacolo di popolo, a cui la gente accorreva in massa. Era un rito espiatorio, tutta la popolazione assisteva, soddisfatta, alla giusta punizione del colpevole; e per i bambini, condotti senza problemi ad assistere al macabro rito, era un’occasione educativa: ecco che fine farai, se non ti comporti bene. Ma intanto anche i bambini, come gli adulti, festeggiavano. Perché i bambini – le favole sono lì a testimoniarlo – hanno un senso della giustizia molto elementare: il cattivo, alla fine, dev’essere punito; la punizione del cattivo è buona. E negli Stati Uniti, nei civilissimi Stati Uniti di oggi, dove la pena di morte è ancora in vigore ma non è più un rito pubblico, i parenti della vittima non sono forse autorizzati ad assistere alla morte del colpevole?
In sintesi: la pubblica messa a morte del cattivo appartiene alla storia di tutti i tempi e di tutti i luoghi; e la partecipazione dei bambini a questo cerimoniale è sempre stata normale. E allora, perché il video dell’Isis suscita la nostra riprovazione?
La prima risposta che mi viene in mente non è molto nobile; la nomino solo perché vorrei combatterla. Ed è questa: ci dà fastidio solo che perché noi abbiamo escluso dalla nostra percezione il lato più immediatamente materiale della vita. Mi spiego con un esempio. Anni fa, fece scalpore la notizia che, sotto Pasqua, nei prati intorno a Vigevano un gruppo di pastori vendeva ai passanti gli agnelli del proprio gregge, sgozzandoli e scuoiandoli davanti agli acquirenti. Tutti si stracciarono le vesti. Ma dove stava il problema? Quei poveri pastori non stavano facendo quel che tutti i loro colleghi hanno sempre fatto? Il problema è che noi, oggi, il sangue non lo vogliamo più vedere. Va bene che gli agnelli vengano macellati; ma nei macelli, con i dovuti controlli sanitari, non sotto gli occhi di tutti. Uscendo dall’esempio: vanno bene le condanne a morte, purché siano realizzate con modi dovuti, nel braccio della morte, dove “occhio non vede, cuore non duole”. Ma, appunto, ho citato questa prima risposta per combatterla: se qualcuno si indignasse per un motivo del genere, non sarebbe certo una ragione adeguata.
E allora? L’unica ragione che mi frulla in testa è un nome e un titolo, Cesare Beccaria, Dei delitti e delle pene. Nome e titolo emblematici di come, da due secoli e mezzo, la nostra civiltà ha imboccato una strada diversa. Da due secoli e mezzo – un soffio, se lo paragoniamo alla storia profonda dell’umanità – l’Europa occidentale ha cominciato a elaborare un’idea diversa della pena: non più, come sempre era stato, vendetta per ristabilire l’ordine violato – per capire quel che voglio dire, si può leggere l’eccellente Punire di Didier Fassin (Feltrinelli) -, ma tentativo di aiutare un uomo a recuperare la sua umanità perduta. È un tentativo prezioso, straordinario; ma, se lo paragoniamo alle tendenze profonde dell’umanità, recentissimo e precario. La tentazione di una giustizia sommaria e spettacolare è sempre presente, ovunque: la decisione di Trump di annullare la sospensione delle condanne a morte comminate dai tribunali federali, il clima forcaiolo alimentato in Italia da destra e da sinistra – dai proclami di Salvini a quelli del Fatto su Formigoni alle lodi dell’abolizione della prescrizione – sono lì a dimostrarlo.
“E voi, mortali, tenetevi stretti/ a giudicar”, scrive Dante: è facile giudicare “barbari” gli altri; più difficile coltivare la civiltà nel modo in cui guardiamo, giudichiamo, stiamo in rapporto nel nostro quotidiano. Non è difficile “decapitare” – metaforicamente, per carità, è ovvio – chi ci sta intorno, magari mentre i nostri figli ci stanno guardando e ascoltando…