Più di 8,6 ogni 100mila abitanti. È il numero di morti Covid in Italia, il più alto in Europa: in Spagna si registrano 4 decessi ogni 100mila abitanti, in Francia 5,25, nel Regno Unito 4,75, in Germania 2,65, nei Paesi Bassi 2,30, in Belgio 7,65, in Austria 8,05, in Svezia 2,20, in Romania 5,85, in Portogallo 5. Avendo superato quota 61mila morti su 1,75 milioni di casi, anche sul tasso di letalità l’Italia è fanalino di coda con il suo 3,4% (peggio di noi solo la Gran Bretagna con il 3,5%): la Spagna è ferma al 2,75%, la Francia al 2,35%, la Germania addirittura all’1,61%. Anche a livello mondiale il confronto non lascia scampo: se il tasso medio globale è pari al 2,3% (fonte: Worldmeters), persino Stati Uniti e Brasile – due paesi non certo esemplari nella lotta al Covid – fanno meglio di noi. Perché, allora, così tanti morti per coronavirus in Italia? Ne abbiamo parlato con Raffaele Antonelli Incalzi, direttore del reparto di Geriatria dell’Ospedale Policlinico universitario Campus Bio-Medico di Roma e presidente della Società italiana di gerontologia e geriatria.



L’Italia ha il record di decessi in Europa. C’è una spiegazione a questo fenomeno?

Potremmo averne più di una. La prima è rappresentata dalle modalità di codifica delle morti. In Italia abbiamo adottato una “visione” più estesa rispetto a quella, molto più focalizzata, in uso nei paesi anglosassoni, dove il Covid viene considerato causa di morte quando si può escludere qualsiasi altra condizione come co-determinante o primaria.



C’è un’altra possibile spiegazione?

Potrebbe derivare dal fatto che in Italia, così come in Spagna, altro paese colpito da elevata letalità, esiste un deficit molto spiccato, e accertato da studi epidemiologici seri, di introito di alcune vitamine, in particolare vitamina C, vitamina D e vitamine B6 e B12, che sono importanti per le funzioni immunitarie. Stranamente la nostra dieta mediterranea, sebbene sia motivo di vanto, risulta in pratica non garantire un apporto adeguato. Osservando la distribuzione della mortalità, si vede proprio che le nazioni con maggior deficit, come appunto Italia, Spagna, Francia e Belgio, sono le più esposte, rispetto ai paesi scandinavi o alla Germania, dove invece si assiste a un introito elevato, grazie a un’alimentazione addizionata di polivitaminici. È un dato che non andrebbe trascurato.



Quanto pesano invece demografia, comorbilità e abitudini sociali?

Servono due modalità di approccio. Da una parte, sul dato generale incidono sicuramente, perché la nostra è la popolazione più anziana d’Europa. Non solo: rispetto ad altre nazioni europee si caratterizza anche per un tasso molto elevato di disabilità, che è fattore di rischio indipendente per morte in questi pazienti, e di multipatologia. In altri termini, viviamo più a lungo, ma gli ultimi anni li passiamo male, in condizioni decisamente compromesse che ci rendono più vulnerabili.

E la seconda modalità di approccio?

Se facciamo una comparazione a parità di situazioni, cioè parità di sesso, età e multimorbilità, il nostro eccesso di mortalità permane e questo fa pensare a qualcos’altro – come le due ipotesi che ricordavo all’inizio – che lo giustifica.

È possibile ipotizzare che qualcosa sia andato storto? Debolezza della medicina territoriale, sottodimensionamento di medici e infermieri, protocolli assenti o confusi o tardivi…

A supporto di questa indicazione, citerei due dati. Da una parte, l’eterogeneità di decessi tra una regione e l’altra; dall’altra, un’eterogeneità degli esiti anche nel setting ospedale per acuti. Questo fa ritenere che le variabili procedurali da lei accennate possano aver influito. È giusto indagare in questa direzione, ma fatte salve alcune situazioni eclatanti – come nel caso della prima ondata in Lombardia, che pur garantendo un’eccellenza sul piano dell’assistenza ospedaliera, ha pagato l’assenza di una medicina territoriale, di una geriatria territoriale, di una valutazione multidimensionale geriatrica territoriale – è difficile dare una risposta precisa.

Si è discusso molto sul dilemma: morti “per” Covid o morti “di” Covid. È una distinzione, una sottigliezza che ha ancora senso?

Per quanto detto in precedenza, se ci riferiamo a una valutazione d’insieme, che si tratti di morti “di” o morti “per” Covid è del tutto relativo.

In che senso?

Se un paziente si è aggravato per altre patologie a causa del Covid ed è morto per un’altra patologia, essendo stato il Covid il fattore che ha determinato uno squilibrio in una situazione già metastabile, alla fine la responsabilità del Covid in qualche misura sussiste.

La comorbilità può rappresentare un fattore di confondimento per una diagnosi precoce del virus, poiché può mimare una sintomatologia attribuibile ad altre patologie e ritardare così la diagnosi precoce del Covid?

Può tanto mimarla quanto addirittura coprirla o impedirne l’espressione.

In che modo?

Per esempio, un paziente affetto da demenza non è in grado di riferire i sintomi. O un paziente già dispnoico non percepisce una variazione della dispnea. Spicca il fatto che nelle persone anziane l’anosmia e la disgeusia non vengano quasi mai riferite. Forse c’è anche una variazione indipendente del corteo sintomatologico, ma senz’altro la multipatologia determina la difficoltà di identificazione, anche precoce, sia da parte del soggetto, che presenta quindi un difetto di enterocezione, sia da chi lo osserva dall’esterno, cioè un difetto di identificazione del nuovo male rispetto alle sintomatologie di base. E questo rende sicuramente tutto più problematico.

Si muore di Covid più negli ospedali, nelle Rsa o in casa?

Impossibile rispondere senza avere dati precisi sotto mano. Posso solo dire che si muore tanto negli ospedali e adesso si muore meno, rispetto alla prima ondata, nelle Rsa, che sono oggi gestite molto meglio.

Abbiamo raggiunto il plateau dei decessi?

Verosimilmente sì, se si guarda il trend degli ultimi giorni. Va però tenuto presente che la curva dei decessi recede tardi rispetto agli altri indicatori. Ancora per un po’ dobbiamo aspettarci valori tra i 400 e i 600 morti al giorno.

Perché in Italia il numero dei decessi è un indicatore che sale o scende molto più lentamente di quanto non salga o scenda l’indice Rt o il numero delle persone che si contagia?

Il dato non mi stupisce e il motivo è semplicissimo: andando la patologia Covid a destabilizzare e aggravare un organismo che presenta già altre malattie, lo sviluppo naturale di queste, una volta instabilizzate, può richiedere un arco temporale anche molto lungo.

Dopo molte settimane il numero di decessi, calcolati negli ultimi sette giorni, è calato del 3,6%. Per dire che il trend è in discesa servono ulteriori e nuove conferme?

Servono almeno tre set point consecutivi per poter dire che c’è un declino, altrimenti può essere solo un’oscillazione non significativa.

Con l’arrivo dell’influenza tradizionale ci attende un inverno preoccupante?

Non è detto, perché l’uso delle misure e dei device inalatori potrebbe ridurre la trasmissione dell’influenza e di altre malattie respiratorie. Purtroppo siamo in ritardo con le vaccinazioni. Recuperassimo questo ritardo, mi sentirei più tranquillo.

Una terza ondata del Covid in queste condizioni è una certezza?

Per rispondere ci vorrebbe più un divinatore che un medico o un epidemiologo. Se saremo scrupolosi nel periodo natalizio e di fine anno, credo che non ci sarà.

La virologa Ilaria Capua ha dichiarato che “a un anno di distanza su letalità e contagiosità vediamo che il Covid non si discosta dall’infezione influenzale. Le pandemie influenzali che hanno passato i nostri genitori sono state gravi e sono state sconfitte perché c’erano vaccini pronti. Sarà una battaglia lunga ma dobbiamo capire che poteva andarci molto peggio”. È così?

Questo vale solo se facciamo riferimento alle forme drammatiche come la Spagnola o la Hong Kong. Ma mediamente non avviene assolutamente così. L’epidemiologia ci dice qualcosa di molto diverso: il Covid è una forma veramente grave, non comparabile con le pandemie influenzali classiche.

(Marco Biscella)

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