LA GUERRA IN ISRAELE E LA “DECOLONIZZAZIONE” DELLA PALESTINA: COSA STA SUCCEDENDO
Non è da oggi che sul destino della Palestina si sente il termine “decolonizzazione” per spiegare, tanto dal lato Israele quanto dai territori palestinesi, quale dovrebbe essere la vera operazione da condurre per “risolvere” l’eterna guerra in Medio Oriente. In termini specifici, la decolonizzazione è un processo con cui un territorio sottoposto a dominazione coloniale ottiene l’indipendenza dal Paese ex colonizzatore: sulla volontà di “decolonizzare” i territori entrati in guerra lo scorso 7 ottobre negli anni si è sentito praticamente di tutto, con le organizzazioni filo-palestinesi – come la sigla terroristica islamista Hamas – che invocano la decolonizzazione contro «l’oppressore israeliano», così come in passato lo Stato ebraico utilizzò quel termine per liberare le aree attorno a Gaza e lì inserirvi i coloni israeliani.
Ma dopo l’attacco choc di Hamas contro Israele sorto lo scorso sabato il termine “decolonizzazione” è tornato di stretta moda, udibile nelle piazze pro-Palestina così come in alcuni discorsi di intellettuali anti-Israele: ne è un esempio lampante la scrittrice somalo-americana Najma Sharif che dopo i raid palestinesi contro civili ebrei scrive su X, «Cosa pensavate che significasse la decolonizzazione? vibrazioni? documenti? saggi? perdenti». Il concetto è semplice: per liberare la Palestina, per decolonizzare dall’usurpatore Israele, si possono accettare anche effetti collaterali inquietanti. Il “fine giustifica i mezzi”, secondo la sinistra filo-Hamas che in questi giorni arriva a “minimizzare” gli orrori avvenuti nei kibbutz o nel rave party nel deserto vicino a Gaza.
GUERRA PALESTINA, “DECOLONIZZARE È DARE DIGNITÀ”: MA PUÒ GIUSTIFICARE TORTURE ED ESECUZIONI?
La decolonizzazione “scelta” da Hamas è quella più aspra e inquietante possibile: significa rimuovere corpi da un luogo, e con corpi purtroppo si intende anche persone senza più la vita. «E come avrai visto, c’era una sorta di rave o festa nel deserto in cui si divertivano molto finché la resistenza non arrivò con deltaplani elettrificati e prese almeno diverse dozzine di hipster»: così si è udito durante il raduno dei Democratic Socialists of America a Times Square (New York) in solidarietà coi diritti palestinesi. Di quel gruppo dem di cui fanno parte personalità politiche Usa come Alexandria Ocasio-Cortez, Jamaal Bowman, Rashida Tlaib e Ilhan Omar si è dunque arrivato a “giustificare” le atrocità viste contro i civili israeliani, tutto nel nome di una “decolonizzazione” tutta da comporre ancora.
«La decolonizzazione significa sognare e lottare per un presente e un futuro liberi dai territori indigeni occupati. Si tratta di una Palestina libera. Si tratta di liberazione e autodeterminazione. Si tratta di vivere con dignità», scrive in un commento Jairo Fúnez-Florez, assistente professore alla Texas Tech. Se ne possono citare molti di intellettuali in queste ore che arrivano a sostenere la decolonizzazione non comprendendo la portata di una posizione del genere: attenzione, non si tratta di prendere una posizione netta o tutta “pro-Palestina” o tutta “pro-Israele”. Si tratta di chiamare le cose col proprio nome: così come i bombardamenti israeliani contro Gaza negli anni scorsi non potevano rappresentare una “giustificazione” per la morte di migliaia di civili inermi, così non è umanamente accettabile anche in nome della decolonizzazione ammettere atrocità come stupri, torture, rapimenti, esecuzioni sommarie e decapitazioni (come i 40 bambini trovati, pare, senza testa oggi nel kibbutz di Kfar Azza, preso d’assalto da Hamas a Gaza), avvenute tutte in queste prime giornate di guerra. Finché resta un termine culturale o accademico, la “decolonizzazione” appare forse come qualcosa di più sensato e ragionato: vedendo però cosa sta comportando il progetto armato di Hamas, oltre ai 2mila morti civili-militari, occorre forse fermarsi un attimo e provare a lavorare per soluzione che fermi questo massacro nel più breve tempo possibile.