Sulla ripresa economica italiana pesano tre errori di fondo operati dal Governo in carica. La mole degli interventi varati per sostenere le imprese, nella forma delle garanzie per l’accesso al credito, dei contributi a fondo perduto, e della sospensione o dell’annullamento delle imposte, è stata inutilmente dispersiva. Con il corredo di procedure contraddittorie, che hanno impedito l’erogazione dei crediti per la stragrande parte delle domande inoltrate dalle imprese, e di un’inopportuna sovrapposizione tra i sussidi al reddito per i lavoratori autonomi e i professionisti con i contributi a fondo perduto destinati nel decreto rilancio alle stesse categorie per ridurre gli effetti negativi della perdita sui  fatturati. L’ultimo decreto approvato mette in campo 23 nuovi provvedimenti e 98 decreti ministeriali attuativi per mandare a regime gli interventi.



Con tutta probabilità,  se si fosse optato in favore di una ragionevole strategia di intervento tramite contributi a fondo perduto condizionati al pagamento degli impegni contrattuali assunti dai beneficiari, come adottati dalla Germania e dalla Francia, gli interventi sarebbero stati più efficaci e meno onerosi. Certamente più equi in rapporto alle dichiarazioni fiscali storicamente rilasciate e alle reali perdite subite.



Il secondo errore è stato fatto nell’ambito dell’erogazione dei sostegni al reddito, che hanno impegnato la metà delle risorse mobilitate nei due decreti approvati, ben oltre l’evidente necessità di sostenere le retribuzioni dei lavoratori delle aziende coinvolte nella riduzione delle attività. A detta del governo sono 18 milioni, un numero equivalente a tutti i lavoratori dipendenti, compresi quelli pubblici non coinvolti nei provvedimenti, le persone che a vario titolo hanno beneficiato dei sostegni deliberati.

Tutti necessari? Lecito dubitare. L’immagine di una povertà dilagante in questa fase di contrazione dei consumi è  stata per lo più un pretesto per erogare risorse a destra e manca. Quelle che era necessario risparmiare per affrontare con mezzi adeguati l’aumento esponenziale del numero dei disoccupati nei prossimi mesi.



Il terzo errore è l’assoluta mancanza di visione nell’impiego delle risorse. Evidente nella comparazione con quanto stanno facendo la Germania e la Francia per sostenere e diversificare gli apparati produttivi. Tutte le nostre discussioni sono concentrate su quello che l’Europa dovrebbe fare per aiutare l’Italia. Assai meno su  cosa l’Italia dovrebbe fare per rimediare l’evidente incapacità di utilizzare le risorse disponibili, a partire dai fondi europei.

Questi tre errori peseranno come macigni sulla ripresa della nostra economia, che rischia di precipitare verso una deriva statalista e parassitaria fondata su salvataggi improbabili, e onerosi, delle imprese. Per togliere ogni dubbio per la ricapitalizzazione dell’Alitalia vengono destinati 3 miliardi. Un importo equivalente all’intero costo delle casse integrazioni in deroga. Uno Stato finto imprenditore che su un altro versante è  impegnato a erogare sussidi verso un abnorme esercito di assistiti impegnati ad arrotondare l’assegno pubblico con lavoretti occasionali in nero.

Il presidente del Consiglio, in un colloquio rilasciato al maggior quotidiano nazionale, annuncia nuove misure choc per rilanciare l’economia. Un proposito lodevole se fosse corroborato da indicazioni coerenti. Purtroppo nella stessa intervista si limita a rassicurare il M5S sulla scelta di non utilizzare i fondi del Mes auspicando che dall’Ue ne arrivino altri corposi a fondo perduto. Eppure non sarebbe necessario preannunciare, per l’ennesima volta nei due anni del suo mandato, l’utilizzo delle armi segrete. Quello che è  necessario fare in Italia è sotto gli occhi di tutti.

A partire dalla necessità di mettere da parte un codice degli appalti che impedisce lo sblocco delle opere pubbliche già finanziate, adottando le direttive europee sulle procedure e rendendo trasparenti le scelte effettuate. Ovvero prendere atto dei ritardi nella digitalizzazione dei servizi, del tutto evidenti nella gestione del coronavirus, che penalizzano la produttività, la qualità delle prestazioni e l’occupazione nei due terzi del sistema produttivo. E a  investire di conseguenza sulla banda larga digitale orientando le ricadute nei settori strategici vitali della sanità dell’assistenza, del turismo, della mobilità, dell’ambiente. Per non parlare della condizione penosa del nostro sistema formativo, soprattutto per la parte dedicata a favorire l’inserimento lavorativo, dato che nei prossimi mesi ci ritroveremo a dover gestire la mobilità  di milioni di persone, prevalentemente anziane e con bassa qualificazione, verso altre attività  produttive che non vengono nemmeno ipotizzate.

La crisi in atto comporterà una selezione del tessuto imprenditoriale, e sull’Italia pesano il mancato ricambio generazionale e il triste primato di 2,2 milioni di giovani che non studiano e non lavorano. Numeri destinati ad aumentare nel breve periodo. Come pensiamo di recuperarli?

Sinora le risposte della nostra classe dirigente sono state: più burocrazia, la promessa di far intervenire lo Stato nel capitale delle imprese con annessi posti nei Consigli di amministrazione, redditi di cittadinanza e finti navigator, redditi di emergenza, sanatorie per reperire immigrati per svolgere i lavori disdegnati dai nostri connazionali con i beneficiari dei sussidi al reddito che vengono esentati dal dover accettare offerte di lavoro anche se a tempo indeterminato. Tutto scritto nei decreti, senza alcun equivoco.

Un mondo all’incontrario. E pretendiamo pure di essere esentati dai controlli su come l’Italia  utilizza le risorse.

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