Il decreto di agosto è l’ultimo della lunga serie di interventi per affrontare la pandemia. Avrebbe potuto mostrare i segni di una svolta, un cambio di fase, invece lascia aperta più che mai la domanda di fondo: che cosa vuole fare il Governo per sostenere la ripresa dell’economia? Ci si aspettava qualche indicazione di massima dai provvedimenti varati venerdì; purtroppo manca ancora l’anello di congiunzione tra emergenza e sviluppo, anzi il rischio è che i due termini diventino in sé contraddittori. Il blocco dei licenziamenti lo dimostra.



Il Governo stanzia 25 miliardi in deficit, cioè prendendo a prestito il denaro sul mercato finanziario, le misure adottate “salvo intese tecniche” sono ancora una volta una sfilza di bonus e di rinvii come quello sulle imposte (le tasse sospese durante il lockdown andranno saldate in due anni, con 24 rate mensili). A questo proposito non si capisce perché il Governo non abbia deciso fin dall’inizio di rateizzare i pagamenti in un arco di tempo sufficientemente lungo, offrendo così ai contribuenti certezza, dote essenziale soprattutto in una crisi profonda come quella in cui siamo. Non è previsto il bonus ristoranti al quale teneva il M5S, né un’estensione ad altri settori come l’abbigliamento e i mobili proposta dal Pd. Una novità è il taglio del 30% dei contributi previdenziali per le imprese che risiedono nel Mezzogiorno, provvedimento che dovrebbe diventare strutturale fino al 2025, finanziato dal prossimo anno con i fondi del piano europeo per la ripresa. Non basterà da solo a colmare il fossato tra nord e sud, questo è evidente, in ogni caso rappresenta l’unico punto di raccordo con il Recovery fund. Per il resto bisognerà attendere che il Governo si sia fatto un’idea su come sostenere l’economia che mostra qualche segnale di vitalità, anche se troppo debole per parlare di una svolta.



Il primo trimestre si è chiuso con un un Pil in discesa del 5,4%; il secondo ha visto un tonfo del 12,4%; a giugno la produzione industriale è risalita dell’8,2% meno della Germania (8,9%) e della Francia (12,7%). Tutte le previsioni convergono verso una caduta del prodotto lordo del 10-11%, più di quella indicata dal Governo che nel Def di aprile aveva sperato in una riduzione dell’8% “soltanto”. Secondo l’ultimo bollettino della Banca d’Italia, la contrazione del Pil oscillerebbe per l’intero 2020 tra il 9,5% e il 13%. Dunque, non ci sarebbe la ripresa a V sperata dai più ottimisti.



Tra i settori più importanti, l’automobile, l’abbigliamento, il turismo mostrano un profondo rosso. È chiaro, dunque, che per invertire la rotta ci vorrà molto più che bonus e tamponi, occorre far partire gli investimenti pubblici e privati da un lato e dall’altro rassicurare i consumatori in modo da rianimare una domanda oggi depressa. Non solo. Il Governo deve prendere decisioni coraggiose per aiutare le imprese a rimettersi in moto e a ristrutturarsi. Dall’autunno e ancor più nel prossimo anno, infatti, assisteremo a una grande ristrutturazione che avrà effetti economici e sociali molto ampi. Il blocco dei licenziamenti non aiuta; anzi, se prorogato nel tempo, diventa un grave ostacolo.

Intendiamoci, nell’immediato era necessario, inoltre sarà valido solo per quelle aziende che hanno ancora la possibilità di usare una parte delle 18 settimane di cassa integrazione, le altre potranno licenziare. La stessa cassa integrazione si fa più selettiva e viene collegata all’andamento del fatturato nel primo trimestre: le imprese che hanno perso più del 20% non avranno nessun contributo aggiuntivo, chi non ha perso nulla pagherà il 18% e chi ha registrato un risultato negativo fino al 20% dovrà versare il 9%. Ma che cosa accadrà dal primo gennaio? Non è ora che il Governo lo sappia e lo dica affinché imprenditori e lavoratori abbiano un quadro di riferimento certo? Non si può andare avanti a spizzichi e bocconi. Il mercato del lavoro ha bisogno di una cornice ben delineata ancor più degli altri mercati. E questo ci rimanda alla questione di fondo: quali riforme il Governo vuole introdurre nel piano per la ripresa. Una riforma fondamentale riguarda proprio il lavoro. Sappiamo che a questo guarda la Commissione europea, ma prima ancora a essa guardano le imprese e i lavoratori italiani.

Occorre una riforma che tenga conto delle novità introdotte durante la pandemia (per esempio, lo smart working) e delle esigenze di riconversione in importanti settori della manifattura e dei servizi (basti pensare per questi ultimi alla profonda trasformazione digitale delle banche). È compito del Governo aiutare il cambiamento e combinare le esigenze sociali a quelle della produzione. Per questo, bisogna mettere il lavoro al primo posto, con una profonda revisione degli ammortizzatori sociali. Ormai abbiamo tre-quattro tipi di cassa integrazione, un’indennità di disoccupazione insufficiente, un reddito di cittadinanza che non ha prodotto un occupato in più, agenzie del lavoro che non funzionano, i navigators diventati una caricatura (non per colpa loro, ma dei cinquestelle che li hanno introdotti), pensioni anticipate che non hanno generato nessun rimpiazzo o ringiovanimento della forza lavoro, come promesso dalla propaganda dei promotori leghisti. In più bonus, sostegni, prebende incerte e insufficienti per lo più disgiunte dalla creazione di nuovi occupati.

È arrivato il momento di elaborare una proposta organica che favorisca la ripresa dell’economia. La tattica del rinvio e degli annunci “salvo intese” non può continuare né qui, né altrove.