Si fa quel che si può, e si può ben poco. È la sintesi estrema della griglia del terzo decreto aiuti contro il caro energia approvata ieri dal governo Draghi e destinata, se tutto va (per modo di dire) bene, ad essere consacrata in un decreto legge la prossima settimana, che dovrà poi essere convertito dal prossimo Parlamento su proposta del prossimo governo.



La cifra che questo documento stanzia è di 6,2 miliardi, la misura operativa principale sarà il rinnovo dei crediti d’imposta sull’acquisto di energia da parte delle imprese. Che è come curare il cancro con l’aspirina.

Però è anche vero che oggettivamente quest’esecutivo a 15 giorni dal voto e a pochi giorni in più dall’uscita di scena, com’era ovvio conoscendo il premier e osservando l’atteggiamento dei partiti, difficilmente avrebbe potuto far di più. Assumersi la responsabilità politica di uno scostamento di bilancio sarebbe stato un gesto quasi dirompente rispetto alla linea osservata finora dall’ex presidente della Bce, e comunque soggetto poi a immediata revisione da parte dei nuovi governo e Parlamento…



Insomma, male ma non malissimo: le forze che usciranno vittoriose dalle urne del 25 settembre avranno modo, a saperli individuare, di applicare i loro correttivi.

Perché che ce ne vogliano è indubbio. Il governo si è limitato a destinare agli sgravi contro il caro energia gli incassi aggiuntivi dei mesi di luglio e agosto, soprattutto incassi da Iva, limitandosi a promettere quasi altrettante risorse che deriveranno (o meglio: che forse deriveranno) dagli ulteriori extraprofitti delle imprese che lucrano sul caro gas, sempre che queste ultime li paghino e non si ritrovino invece coperte dai profili di incostituzionalità della norma che glielo imporrebbe, non a caso impugnata davanti al Tar.



Ciò detto, a varare il nuovo provvedimento per dar modo al Consiglio dei ministri di approvarlo giovedì prossimo dovrà essere questo Parlamento, e le votazioni avranno luogo al Senato martedì e alla Camera giovedì, sperando che questo scatto di calendario conduca il numero legale dei parlamentari a presentarsi a Palazzo Madama e a Montecitorio, rendendo possibile appunto il voto malgrado gli impegni nella campagna elettorale dei parlamentari ricandidati e la ricerca di un posto di lavoro dei molti che andranno a casa direttamente e senza passare dal via!

La portata modesta dell’intervento in sé e il contesto istituzionale atipico generato dal calendario fa tristemente riscontro con il quadro decisionale europeo, e cioè con le due decisioni assunte ieri dalle massime autorità unitarie, la Commissione e la Bce. Che sono tornate a essere quelle di sempre, ossia poca roba.

La Commissione ha rinviato la decisione sul price cap del gas, quella aveva un po’ impressionato i mercati, perché ha nuovamente constatato di non poter raccogliere su di essa la necessaria unanimità. La Bce ha alzato i tassi di 0,75 punti base, aprendo a ulteriori rialzi, e tornando dunque ad applicare la contromisura classica che viene opposta dalle banche centrali all’inflazione vera, quella da domanda, trascurando che quella attuale è invece un’inflazione da offerta geopoliticamente drogata.

Col bell’effetto di aggiungere a un fattore recessivo un secondo fattore recessivo. Un gorilla nella nebbia non avrebbe scelto più oculatamente.

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