Giuseppe Conte ha chiesto scusa agli italiani perché in troppi non hanno ancora ricevuto gli aiuti e i finanziamenti già stanziati. Ha fatto bene, ma il presidente del Consiglio rischia di dover chiedere ancora scusa e questa volta per ritardi che non derivano da vincoli burocratici o inefficienze amministrative, bensì dall’interno del Governo. Non sappiamo che cosa conterrà il nuovo decreto, sappiamo che il deficit aggiuntivo ammonta a 55 miliardi di euro, quindi dovrebbe essere un pacchetto più pesante di quello già approvato. Doveva essere varato ad aprile, si era detto prima di Pasqua, poi dopo Pasqua, adesso diventa il decreto di maggio e speriamo che non slitti ancora. Eppure tutti sanno che il fattore tempo è fondamentale, è il più importante per intervenire contro il Covid-19, ma lo è anche per evitare che la caduta dell’economia precipiti come una valanga irrefrenabile. Allora come spiegare questi ritardi?
La risposta più ovvia è che il Governo resta diviso sul che fare. C’è lo scoglio del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, da dove potrebbero arrivare 37 miliardi di euro, ma al quale il Movimento 5 Stelle non vuole ricorrere. È un contrasto che rischia di minare la maggioranza. C’è poi l’offensiva di Matteo Renzi il quale, dopo aver accusato Conte di ricorrere a metodi incostituzionali (smentito poi dal Quirinale), cavalca lo scontento di molte categorie, soprattutto commercianti e partite Iva, che finora si sono sentite rappresentate soprattutto dalla Lega e adesso guardano a Fratelli d’Italia. Ma c’è anche una scarsa chiarezza da parte del Pd che pensa, non meno di Renzi, a schieramenti politici futuri. L’ombra del dopo Conte e le manovre per una “grande coalizione” bloccano il Governo.
Il nuovo provvedimento deve allargare ancora le maglie della spesa pubblica. Conte ha parlato alla Camera di aiuti alle famiglie, di sostegni ai disabili, di detrazioni fiscali per l’edilizia. Ci sarà una proroga della Cassa integrazione? È molto probabile. Slitteranno di nuovo le tasse? Forse. La moratoria chiesta dall’opposizione verrà presa in considerazione? Gli aiuti alle imprese diventeranno a fondo perduto, e si aggiungeranno così ai prestiti bancari garantiti dallo Stato, quando arriveranno? Da più parti ormai si ritiene che siano inevitabili per impedire che troppe aziende chiudano i battenti per sempre. Tuttavia, allo stato attuale, il giorno prima della riapertura o della fase 2 che dir si voglia, siamo solo alle ipotesi o alle indiscrezioni di stampa. E manca del tutto una logica progettuale.
La condizione affinché gli aiuti pubblici servano davvero a impedire che la recessione diventi una depressione, dipende da una scelta di fondo su chi dovrà fare da locomotiva per la crescita. La mano pubblica, una volta fornito il salvagente, aiuterà a stare a galla, ma a navigare saranno le imprese. Il Governo può dare loro qualcosa di importante quanto e forse ancor più del denaro liquido: una rotta. Non intendiamo parlare di programmazione, pianificazione, politica industriale fissata dall’alto, ma una bussola questa sì.
La filiera dell’auto rappresenta circa il 10% del prodotto lordo, soprattutto grazie alle aziende fornitrici dei colossi italiani e stranieri, dalla Fiat Chrysler che deve fondersi con Peugeot e comunque in Italia è il principale gruppo industriale privato, alla Volkswagen e agli altri big tedeschi per i quali lavorano le fabbriche del nord Italia. Ebbene questo enorme polmone manifatturiero oggi è in crisi nera, e quando ci sarà la ripresa sarà sottoposto a una ristrutturazione legata ai nuovi orientamenti del mercato. Per fare un esempio: immaginando come saranno organizzate le città e la crisi inevitabile dei trasporti pubblici, ci sarà bisogno di più city car ibride o elettriche e meno suv. Ebbene, se l’Italia non vuole perdere gran parte di quel 10% del Pil che cosa deve fare per sostenere e favorire questa riconversione?
Pensiamo a un’altra filiera destinata a diventare strategica, quella della salute che va dalle università alle farmacie. Tutti oggi parlano di potenziare la sanità, ma pochi ragionano in termini sistemici. L’intero settore andrà ripensato, con più investimenti pubblici e privati. La farmaceutica che si dimostra decisiva, in Italia è rappresentata da tante piccole imprese e da una manciata di gruppi il cui fatturato supera a massimo il miliardo di euro. Cioè sono medio-piccoli a confronto dei colossi internazionali. L’azienda di Pomezia Irbm lavora al vaccino insieme allo Jenner Institute di Oxford, ma a produrlo sarà la britannica Astra Zeneca che fattura 30 miliardi di dollari. È questo il posto dell’Italia nella divisione internazionale del lavoro. Dovrà restare sempre così?
Gli esempi sono molti, pensiamo alla necessità di potenziare l’economia digitale dove l’Italia resta molto indietro, a cominciare dalla rete internet. E spicca in particolare il turismo che rappresenta oltre il 10% del prodotto lordo. È stato cancellato dalla pandemia e dal lockdown. Non si sa come rimetterlo in piedi. Non solo. Lo si affronta per lo più in chiave ludica (possiamo andare al mare oppure no, faremo le vacanze in Italia, ecc.), mentre sembra chiaro che il modello sul quale si è retto il boom degli anni scorsi (pensiamo ai bed&breakfast), è destinato al tramonto. Non abbiamo visto finora un’analisi strutturale e un approccio di sistema; eppure ne va dell’esistenza economica di intere città ed è in gioco il futuro di almeno un milione di lavoratori se calcoliamo solo gli addetti in senso stretto.
Ci sono settori dell’economia dove un euro investito ne mette in moto molti altri, con un forte impatto moltiplicatore. Le risorse disponibili, quelle europee, quelle interne e quelle recuperate sui mercati emettendo titoli per coprire il disavanzo pubblico, dovrebbero essere concentrate là dove l’effetto trainante è più forte e nei settori che debbono essere potenziati per affrontare il mondo che verrà. Non sembra che il decreto di maggio si muova in questa direzione. Ma saremmo contenti di sbagliarci.