Il governo Draghi approva un nuovo decreto-legge per gestire la nuova fase della pandemia e subito riparte il tormentone sul Conte-Draghi, cioè sulla continuità tra le misure del vecchio governo e dell’attuale. La memoria torna a 12 mesi fa, quando alla fine di marzo il Paese era attanagliato dalla paura e chiuso in casa, con il presidente del Consiglio che ogni due settimane reiterava un suo Dpcm per cercare di traguardare una serie di scadenze: prima la blindatura per Pasqua, poi quella del 25 aprile, quindi il 1° maggio e finalmente riaprire, sia pure molto gradualmente. Anche adesso abbiamo visto una marcia di avvicinamento a Pasqua fatta di crescente severità confermata per tutto aprile per saltare direttamente a maggio, quando verrà riproiettato il film già visto delle progressive riaperture.



Le analogie sono numerose, ma negare le differenze sarebbe contrario ai fatti. Ora abbiamo meno paura di un anno fa, quando ci siamo barricati in casa affacciandoci alle finestre soltanto per esporre il tricolore. Abbiamo un governo che non ci rovina le serate con le dirette Facebook da Palazzo Chigi. Abbiamo una campagna di vaccinazione in atto che sembra finalmente conoscere un’accelerazione. Abbiamo una serie di scelte precise: il ritorno degli studenti in classe, almeno dei più giovani; l’obbligo di vaccinazione per tutto il personale della sanità, farmacisti compresi (e questo è un salto non solo epidemiologico ma addirittura culturale); il divieto per i governatori regionali di fare di testa propria in materia di scuola, decretando chiusure mentre il potere centrale insiste per il ritorno in aula. Si vede più polso in chi siede nella stanza dei bottoni, accompagnato dalla decisione di varare un decreto-legge (da sottoporre al dibattito e all’approvazione del Parlamento) e non un Dpcm, per il quale è sufficiente una passerella del premier davanti alle telecamere.



Quindi le differenze ci sono. Ma è evidente anche un fattore di continuità, che riguarda la mancanza di attenzione per una larga fetta del Paese. C’è una parte d’Italia sistematicamente ignorata da chi sta al governo, ed è quella dei piccoli imprenditori, degli artigiani, delle partite Iva, di chi tira avanti senza un datore di lavoro ma scommettendo su sé stesso. Conte scontava un’ignoranza di fondo della sua maggioranza, portata a tutelare gli statali e i lavoratori dipendenti a scapito degli autonomi. Draghi invece – e il suo ministro dell’Economia come lui – per la sua formazione in Bankitalia che l’ha portato a tenere sott’occhio i grandi numeri, considera soprattutto la grande impresa e non la piccola. Questa classe dirigente si focalizza sulle realtà produttive con grandi fatturati e grandi numeri di lavoratori, ma non sulla miriade di piccoli fornitori e di terzisti che ruotano attorno ai grandi. Guarda ai mega-alberghi che restano aperti per i viaggiatori del business e non alle piccole realtà familiari o poco più grandi che vivono di vacanze, turismo e voglia di evasione.



Questa Italia dei piccoli e piccolissimi, delle professioni e delle botteghe, è un puzzle composto da tessere minuscole che però messe assieme formano un’immagine gigantesca. Ed è un’Italia che continua a restare estranea ai radar della politica che conta. È intercettata da alcuni partiti di centrodestra, mentre viene ignorata dal resto. Questa realtà economica frammentata ma non per questo priva di vitalità, questo tessuto molecolare al quale si deve la maggior parte del Pil nazionale sfugge sia allo statalismo dei grillini sia alla classe dirigente che esce da Bankitalia.

Questa fetta di Italia in crescente sofferenza merita soltanto il contentino di un impegno a valutare eventuali riaperture a metà aprile se i numeri dovessero consentirlo. Attenzione: una valutazione, non un automatismo. Certo, meglio un impegno che nessun impegno. Resta l’interrogativo sul perché questa galassia di imprenditorialità non riesca mai a trovare qualcuno che – a palazzo Chigi – la prenda sul serio.

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