Per troppi anni le emergenze economico-sociali avevano sempre penalizzato le richieste di interventi a sostegno delle famiglie: “ci sono altre priorità, l’emergenza chiede altri interventi, potremo dare qualcosa alle famiglie quando ci saranno tempi migliori”.
Così sulle famiglie si scaricavano le conseguenze sociali delle difficoltà delle persone (la famosa “famiglia ammortizzatore sociale”), come ad esempio per la disoccupazione giovanile, senza che venissero offerti adeguati supporti o sostegni.
Questa volta, invece, con il decreto approvato dal Consiglio dei ministri il 16 marzo per fronteggiare l’emergenza coronavirus, per la prima volta i concreti interventi di sostegno alle famiglie sono stati introdotti non più a pie’ di lista, ma con “pari dignità” rispetto a tutte le altre priorità, alla pari degli interventi per sostenere gli operatori sanitari, per proteggere le imprese, per difendere il lavoro.
Il dato è decisamente positivo, e corrisponde, del resto, alla realtà dei fatti: chiudersi tutti in casa ha significato, inevitabilmente, chiedere alle famiglie un impegno unico, e riconoscere la famiglia come luogo protettivo; alle famiglie è chiesto un ruolo pedagogico decisivo per aiutare bambini, ragazzi, giovani e adulti a capire che “il bene di tutti viene prima dei desideri di ciascuno”.
Ovviamente per proteggere il benessere delle famiglie sono fondamentali tutte le politiche attive di protezione della salute, di sostegno al lavoro e ai redditi (certamente le più rilevanti nel decreto), ma gli interventi specifici per la famiglia sono comunque virtuosi.
In particolare sono certamente positivi i 15 giorni di congedo parentale retribuito al 50% offerto ai dipendenti per curare i figli, a causa della chiusura delle scuole, così come, finalmente, voucher/buoni baby sitter che proteggano i tanti (giovani) lavoratori autonomi e non dipendenti, condizione che in genere lascia questi genitori molto meno protetti dei lavoratori dipendenti.
Dispiace, però, in questo decreto, che questo congedo sia totalmente non retribuito per chi ha figli tra i 12 e i 16 anni; come se questi figli potessero essere lasciati da soli a casa, senza un adulto di riferimento. Non si tratta, qui, di lamentarsi per principio, chiedendo sempre e comunque più risorse. Si tratta invece di riconoscere che la concreta quotidianità di famiglie con figli adolescenti in “quarantena volontaria” presenta criticità e fatiche certamente almeno uguali a quelle di chi deve curare un bambino piccolo – anzi, per dirla tutta, a volte aiutare/costringere un figlio adolescente a restare in casa è forse anche più complicato…
Le risorse impegnate dal decreto sono davvero consistenti, ma ovviamente non basteranno per far ripartire il Paese – e ne è consapevole per primo il Governo. Quello che è auspicabile è che anche nel “dopo emergenza” le politiche per la famiglia vengano inserite ai primi posti dell’agenda, e non vengano più considerate marginali, residuali, e possibili solo in tempi migliori: “quando il gioco si fa duro, i duri entrano in campo” – e le famiglie hanno tenuto il campo con grande dignità e affidabilità, dimostrando anche in questa emergenza, se ce ne fosse stato bisogno, che esse sono la spina dorsale del Paese: una risorsa irrinunciabile per difendere e promuovere il bene di tutti.