Qui o si fa la pace o l’Europa si spacca. Il senso profondo delle misure tattiche prese ieri dal governo Draghi – e per carità, meno male che le ha prese! – è anche questo. L’Italia autofinanzia le “mitigazioni” per imprese e famiglie sul fronte del caro-energia senza attingere a risorse europee – non ce ne sono! – e senza varare alcuno spostamento di bilancio, nome elegante per “deficit aggiuntivo”. I 4,4 miliardi stanziati dal governo provengono dalla tassazione straordinaria degli utili straordinari maturati da alcune grandi e grandissime aziende della filiera energetica; e provengono anche da una devoluzione, non poi particolarmente generosa, dell’extra-gettito Iva intascato dal governo proprio per l’aumento del prezzo dei carburanti.



È molto importante chiarire questo punto, perché spiega la corta portata dei provvedimenti in termini di tempo: da qui a fine aprile, 40 giorni. Non ci sono soldi per parare davvero i colpi, se i colpi dovessero continuare a caderci addosso.

Ecco perché i provvedimenti di ieri valgono per così poco tempo. Se 4,4 miliardi coprono 40 giorni, per coprirne 365, cioè 9 volte tanto, ne servirebbero 40. Altro che extragettiti.



Quindi Draghi spara vicino non perché sappia qualcosa che noi non sappiamo, non – purtroppo – perché sappia – come tutti auspichiamo ma non potremmo giurare – che la pace si avvicina.

No. Draghi sa che la batosta sui nostri costi produttivi e sul consumo delle famiglie per l’acquisto di energia elettrica e gas è per noi talmente devastante, come lo è per la Germania, che se dovesse durare imporrebbe ai paesi colpiti come il nostro di ricorrere al razionamento delle risorse energetiche o all’Europa di mobilitare risorse collettive per finanziare mitigazioni più lunghe.

Ma Draghi sa anche che l’afflato unitario scattato in Europa di fronte al flagello del Covid – scattato non subito, ma quando si è capito che la pandemia non risparmiava nessuno – non si ripeterà mai nel caso del caro-energia.



Non si ripeterà perché la Francia ne è appena lambita, quasi autosufficiente com’è sul fronte energetico, e anche i Paesi Bassi tutto sommato si difendono; chi subisce più degli altri la batosta è chi in fondo se l’è cercata. La Germania, che la pur mitica Merkel non sottrasse di un grammo alla dipendenza dalle forniture russe di gas nemmeno nel 2014, dopo che pure l’invasione della Crimea avrebbe dovuto ben bastare ad avvisare Berlino dell’aggressività dello zar; e l’Italia, che si è suicidariamente chiamata fuori dall’energia nucleare e che, per tener dietro ai belati degli ambientalisti al semolino di casa nostra, ha ridotto le estrazioni di gas e petrolio ben al di sotto dei livelli che avrebbe potuto mantenere, mentre a causa di una inestirpabile burocrazia si è fermata nello sviluppo delle rinnovabili ben sotto i livelli che a quest’ora avrebbe potuto raggiungere.

Quindi: non contiamo sull’Europa. Ed attenzione; anche quei “due o tre trilioni” di euro che lo stesso Draghi ha evocato come importo necessario complessivamente all’Europa per rispondere all’emergenza energetica, climatica e della difesa, hanno per ora zero possibilità di essere finanziati da una decisione collettiva dell’Unione, proprio perché mettono insieme fichi, dadi e datteri, cioè esigenze collettive (attivare una difesa europea degna di questo nome) ma anche esigenze specifiche come l’autosufficienza energetica, diversa da Paese a Paese.

Per questo Draghi spera in una pace che, sia chiaro, non restituirebbe la Russia alle relazioni ordinarie con i Paesi europei che ha mantenuto fino a 24 giorni fa – le sanzioni resterebbero – ma stempererebbe e non di poco il clima di giustificato ancorché ipocrita sdegno, alimentato oggi da chi più incensava lo zar o ne dipendeva: e ciò aiuterebbe a rimettere gradatamente sui binari di sempre i flussi di approvvigionamento energetico e i relativi costi.

Dunque una buona mossa da parte del governo? Sì e no. Sì, perché qualcosa fa ed è meglio mangiare un tozzo di pane che restare digiuni. No, perché con quest’approccio i problemi dell’emergenza restano tutti. Per i trasportatori che a ottobre 2021 viaggiavano a 1,6 euro a litro di diesel oggi continuare a pagare 2,3 euro avrebbe significato fallire. Ma anche pagare 2,05 costituisce una batosta sui conti che solo in pochi potranno sostenere.

Quest’ennesimo cigno nero che ci capita tra i piedi è però istruttivo e amaramente realistico e ci ricorda che non basta il coro propagandistico sulle magnifiche sorti e progressive dell’Italia di Draghi per risolvere davvero i problemi annosi e nuovi che ci affliggono, al di là dell’enfasi e delle zoppicanti larghe intese.

Occorre una risposta europea, ha detto Draghi: e non avendola “troveremo il modo di far qualcosa a livello nazionale, ma non sarà così soddisfacente”. Ecco un po’ di sincerità. E comunque per far questo qualcosa “non così soddisfacente”, servirà un ritorno della politica, se mai riuscirà ad affermarsi ed a produrre qualcosa di buono, per rimettere sui binari lo sviluppo del Paese, al di là delle mitigazioni, delle elemosine e delle generosità pelose di Bruxelles.

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