Scorrendo la relazione sull’economia non osservata e sull’evasione fiscale e contributiva, allegata alla Nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza 2019, si possono leggere i costi dell’evasione fiscale e contributiva. In media, nel triennio 2014-2016 – per il quale si dispone di un quadro completo delle valutazioni – il tax gap complessivo, ossia il divario tra gettito teorico ed effettivo, è pari a circa 109,7 miliardi di euro, di cui 98,3 miliardi di mancate entrate tributarie e 11,4 miliardi di mancate entrate contributive; il dato è calcolato sull’87,5% dei tributi presi in considerazione dalle competenti strutture del Mef.



Più in dettaglio, nel periodo 2014-2016, il gap medio ammonta a 38,6 miliardi di euro per l’Irpef (di cui 33,3 riferibili a lavoro autonomo e 5,3 riferibili al lavoro dipendente); 35,8 miliardi per l’Iva; 6,5 per l’Irap; 1,4 per le accise sui prodotti energetici e 5 per l’Imu. Per le entrate contributive, mancano all’appello 2,7 miliardi di euro di contributi a carico del lavoratore e 8,6 a carico del datore di lavoro. Se si osserva, nello stesso periodo, la propensione al gap relativa alle entrate tributarie, in media pari al 21,9%, risulta elevata quella riferita all’Irpef da lavoro autonomo e impresa (68,3%), che può essere in parte dovuta a una regolamentazione particolarmente intricata e al generale aumento della pressione fiscale.



Se si analizzano i dati distinguendo tra mancati versamenti o errori e omessa dichiarazione di imposta, si nota, nel periodo 2012-2017, un gap complessivo relativo a Irpef da lavoro autonomo, Ires, Iva, Irap, locazione e canone Rai, di circa 85,9 miliardi di euro, di cui 14,1 dovuti a omessi versamenti o errori e 71,8 dovuti a omessa dichiarazione. L’Iva segna il gap maggiore (36 miliardi di euro), con una maggiore incidenza di omessi versamenti o errori nella compilazione delle dichiarazioni rispetto agli altri tributi (mediamente circa 9,3 miliardi di euro).

Stante il quadro delineato – sia pure per sommi capi – è più che condivisibile che il Governo si ponga l’obiettivo della lotta contro l’evasione fiscale, che consentirebbe di recuperare ingenti e importanti risorse da destinare alla crescita, oltre a rispondere a una specifica raccomandazione rivolta dall’Ue al nostro Paese. Naturalmente, le modalità di attuazione non sono secondarie: ne vorrei enucleare qui semplicemente due, incluse nel recente decreto legge su disposizioni urgenti in materia fiscale del 26/10/2019, attualmente in corso di conversione.



La prima è l’introduzione dell’obbligo, in capo al committente che affidi a un’impresa l’esecuzione di opere o servizi, di versare le ritenute fiscali sulle retribuzioni del personale impiegato dall’impresa che svolge il servizio per conto del committente. In pratica, se la società “Alfa” che produce bottiglie ne affida la distribuzione alla società “Beta”, le ritenute fiscali applicate sugli stipendi pagati da “Beta” al proprio personale impiegato a beneficio di “Alfa” devono essere versate all’erario da quest’ultima e “Beta” deve rendere disponibili i soldi per effettuare il pagamento in prossimità della scadenza del termine. Il conseguente aggravio operativo, dovuto alla trasmissione di distinte, alla messa a disposizione dei mezzi economici necessari, alla segmentazione delle ore dedicate dal proprio personale all’azienda “Alfa”, che ovviamente è soltanto uno dei clienti, richiedono la costruzione di un meccanismo talmente farraginoso, che difficilmente potrà essere efficiente e rispondere allo scopo di tutelare l’erario, come vorrebbe il Governo: invece di potenziare l’attività di controllo mirata su settori sensibili all’evasione, lo Stato intende riversare tale onere sul tessuto produttivo stesso, peraltro in un momento di stagnazione prolungata dell’economia italiana, aggiungendo ulteriore burocrazia che facilmente produrrà ulteriore “evasione”, derivante da errori o omessi versamenti (come mostra il dato su indicato).

La seconda misura è il massivo ricorso ai pagamenti elettronici: se da una parte consente una tracciabilità integrale del pagamento, dall’altra presenta anche alcune criticità, oltre a non offrire un’immediata garanzia di recupero dell’evasione. Dal lato degli esercenti, ad esempio, occorre rivedere l’importo commissionale sulle transazioni applicate dagli istituti di credito e di moneta elettronica, che rischiano di comprimere i ricavi di artigiani e commercianti, pur prevedendo il decreto un credito di imposta del 30% delle commissioni addebitate. Inoltre, tali misure rendono la presenza della Pubblica amministrazione sempre più invasiva, come se lo strumento più efficace per contrastare l’evasione sia sottrarre progressivamente spazi alla libertà individuale. In un contesto analogo, si colloca la norma che consente la memorizzazione e l’utilizzo dei file delle fatture elettroniche, con tutti i dati ivi contenuti, per gli 8 anni successivi alla presentazione della dichiarazione di riferimento, finalizzata all’analisi del rischio-evasione e ai controlli fiscali da parte di Guardia di Finanza e Agenzia delle Entrate. Si tratta di un patrimonio informativo enorme che va al di là del settore strettamente tributario “potenziando – così nell’idea del Governo – l’attività di contrasto di qualunque forma di illegalità“, previsione che, non a caso, il Garante della privacy ha giudicato “sproporzionata”.

Forse si agisce troppo in fretta in modo avulso dalla realtà del Paese e questo contribuisce soltanto ad aumentare la confusione.