Sui tavoli dei capi di gabinetto dei ministeri dell’Interno, del Lavoro e degli Affari esteri circola da tempo la bozza del nuovo Decreto flussi per gli ingressi per motivi di lavoro riservati ai cittadini extracomunitari, che prevede un aumento del numero delle 30.800 quote previste dal precedente Dpcm del 12 ottobre 2020, fino alle 80 mila, ipotizzate dal nuovo testo, tra le quali 45 mila destinate ai permessi di soggiorno per i lavoratori stagionali.



L’incremento è sostanzioso e contiene la novità di programmare anche l’ingresso di una quota significativa, almeno 28 mila, di lavoratori dipendenti subordinati. Destinata, almeno in parte, a compensare la progressiva riduzione dei lavoratori comunitari in regime di libera circolazione che è in atto da alcuni anni, che ha subito un’accelerazione nel corso della pandemia Covid.



Il nuovo decreto è stato sollecitato dalle Associazioni imprenditoriali, dei settori dell’agricoltura, del turismo, delle costruzioni e dei trasporti, per rimediare alle difficoltà nel reperire la manodopera disponibile sul territorio nazionale. Ma viene nel contempo contestato dalle principali forze politiche del centrodestra, in particolare quelle che paventano la sottrazione di opportunità di impiego per i disoccupati italiani, a partire da quelli che beneficiano dei sostegni al reddito per mancanza di lavoro.

In materia di immigrazione basta poco per infiammare gli animi, ma, per quanto possa sembrare paradossale, entrambe le valutazioni per quanto contraddittorie, fanno leva su criticità reali del nostro mercato che meritano di essere approfondite. La richiesta di nuovi lavoratori stranieri presenta caratteristiche analoghe a quanto avviene in altri Paesi sviluppati, ma in coincidenza con elevati tassi di occupazione della popolazione autoctona, grazie anche a una maggiore propensione da parte dei lavoratori nazionali a svolgere quei lavori esecutivi che dalle nostre parti non vengono ritenuti degni di essere presi in considerazione.



Una parte significativa di questi fabbisogni di manodopera straniera proviene da mercati del lavoro caratterizzati da quote rilevanti di prestazioni sommerse, svolte per la gran parte da altri immigrati regolarmente residenti. I settori del lavoro domestico, dell’agricoltura, delle costruzioni, della logistica, del turismo e ristorazione, rappresentano lo sbocco occupazionale per il 60% degli immigrati, con contratti a termine di breve periodo e una rilevante mobilità del lavoro. Nella sostanza la programmazione dei nuovi ingressi, nel migliore dei casi, rappresenta una sorta di rimpiazzo della quota fisiologica degli immigrati che per varie ragioni cambiano attività o ritornano nei Paesi di origine. Negli anni scorsi, quando le quote per gli ingressi per svolgere lavori stagionali erano abbondanti, era diffusa la prassi di utilizzare i nulla osta rilasciati dalle Ambasciate italiane per venire in Italia senza recarsi successivamente sul posto di lavoro.

In pratica una quota significativa di questi flussi finisce per approvvigionare di nuova manodopera dei sub mercati del lavoro poco attraenti per i disoccupati italiani, soprattutto per quelli che beneficiano dei sostegni al reddito pubblici, con dinamiche che finiscono per deprimere le condizioni di reddito e di lavoro degli stessi lavoratori immigrati.

Quali prospettive possono avere queste politiche per l’immigrazione? Praticamente nessuna, per evidenti problemi di insostenibilità. Buona parte dell’espansione della futura occupazione viene prevista nei comparti dei servizi, come conseguenza della digitalizzazione dei processi e della crescita della produttività. Fattori che richiedono, a loro volta, l’impiego di risorse più qualificate e meglio remunerate.

Il cambiamento atteso non avviene all’ improvviso, ma di sicuro deve essere quanto meno provocato. Ad esempio, con la formazione di liste di disponibilità territoriali dei beneficiari dei sostegni al reddito (ce ne sono moltissimi nel settore agricolo) per condizionare l’erogazione degli assegni pubblici all’accettazione delle nuove offerte di lavoro.

Coinvolgendo gli immigrati residenti in Italia nelle politiche attive del lavoro per consentire loro di fuoriuscire dalle intermediazioni spurie e dal lavoro mal pagato. A tale proposito sarebbe utile sapere che fine hanno fatto i lavoratori coinvolti nelle 220 mila domande di permesso di soggiorno presentate con la procedura di emersione varata nel 2020 e che, per la stragrande maggioranza, non sono state ancora esaminate a distanza di 15 mesi.

Oppure togliendo di mezzo il modello delle domande on line per la gestione delle nuove quote di ingresso, sostituendolo con delle autorizzazioni rilasciate in via provvisoria alle imprese, o alle agenzie del lavoro da loro delegate, per selezionare e formare lavoratori stranieri nei Paesi di origine. Rilasciando successivamente il permesso di soggiorno, previa verifica della congruità del fabbisogno lavorativo e della regolarità del rapporto di lavoro.

Di proposte utili per rendere trasparente l’incontro la domanda e l’offerta di lavoro, e migliorare i salari dei lavoratori, se ne possono fare altre. Ad esempio consentire, entro certi importi, di cumulare i sostegni al reddito con l’utilizzo di voucher orari per le raccolte stagionali o per svolgere lavori occasionali. Ma in questa sede preme sottolineare che allo stato attuale si stanno affrontando problemi strutturali con provvedimenti di tipo emergenziale e privi di un’adeguata analisi dell’impatto sul mercato del lavoro. Provvedimenti che, al di là delle buone intenzioni, non sono efficaci o che rischiano persino di aumentare le criticità.

Come stiamo cercando di sottolineare da molto tempo, si continuano a offrire risposte di vecchio stampo trascurando che si è esaurito il ciclo dell’immigrazione fondata sull’attrazione di risorse umane poco qualificate. Il problema non è quello di fare il tifo pro o contro gli immigrati, ma di avere delle politiche per l’immigrazione adeguate ai tempi che viviamo.

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