Il Consiglio dei ministri decide oggi lo scostamento di bilancio da 40 miliardi di euro. È il settimo che il Parlamento sarebbe chiamato ad approvare da quando è scoppiata la pandemia, il secondo nei due mesi di Mario Draghi a Palazzo Chigi. Giuseppe Conte ne aveva varati 5 per complessivi 140 miliardi, Draghi in 60 giorni ha raggiunto quota 72 miliardi. A fine gennaio, l’allora ministro Roberto Gualtieri con un eccesso di ottimismo aveva dichiarato che sarebbe stato l’ultimo sforamento. Invece no. “Questo è l’anno in cui non si chiedono soldi, si danno soldi”, ha detto Draghi il mese scorso aggiungendo: “Verrà il momento in cui dovremo guardare al debito ma non è questo”. Si riferiva alle regole europee del Patto di stabilità, sospese fino al 2022, dopo di che probabilmente cambieranno.
Secondo lo schema circolato ieri, 20 miliardi sarebbero di ristori a fondo perduto per le imprese, 15 miliardi per affrontare i costi fissi e rafforzare la liquidità delle aziende e 5 miliardi destinati a un fondo per finanziare le opere lasciate fuori dal Recovery plan ma giudicate “meritevoli”. Non si esclude che l’ammontare possa salire ancora.
Pareva che il Consiglio dei ministri dovesse decidere ieri ma c’è stato uno slittamento. Draghi ha bisogno di una messa a punto precisa del nuovo decreto legge. Questo è il suo vero banco di prova, il provvedimento dedicato al mondo economico e imprenditoriale, che deve dare a chi produce vero ossigeno finanziario e non rimasugli di fondi strappati a bonus e cashback. Sembra che il decreto non si chiamerà Ristori 2 ma Imprese, a conferma delle intenzioni dell’esecutivo.
Parallelamente, il governo è impegnato in un ampio giro di consultazioni sul Piano nazionale di ripresa e resilienza. I ministri stanno incontrando Regioni e parti sociali per raccogliere gli ultimi via libera: il Pnrr sarà illustrato in Parlamento il 26 e 27 aprile per essere presentato all’Unione Europea entro il 30 aprile, termine che accomuna tutti i Paesi dell’Ue, la quale poi avrà tre mesi per valutazioni e approvazioni. Siamo dunque a una svolta cruciale per il governo Draghi, nato proprio perché i 191 miliardi di finanziamenti europei fossero gestiti meglio di quanto stava facendo il precedente esecutivo: uno dei dossier su cui si impuntò Matteo Renzi era proprio la governance del Recovery italiano, che Conte voleva accentrare su di sé senza alcuna trasparenza mentre Draghi l’ha delegata a una struttura che fa capo al ministro Daniele Franco.
Le consultazioni sono svolte dai ministri incaricati da Draghi di attuare il Pnrr, cioè i tecnici da lui scelti per decidere gli obiettivi e vigilare sull’attuazione: lo stesso Franco, Cingolani, Colao, Giovannini e Messa, più Carfagna e Speranza. Proprio quest’ultimo potrebbe però rivelarsi l’anello debole della catena. Non è in discussione la fiducia di Draghi nei suoi confronti: la “grande stima” nel ministro della Salute dichiarata dal premier nell’ultima conferenza stampa per arginare le critiche di Matteo Salvini non è di circostanza. La sostituzione di Speranza, ieri difeso a spada tratta dal Pd, non è all’ordine del giorno, contrariamente alle indiscrezioni riportate dai giornali.
La minaccia per Speranza, e per il governo, non arriva dalle tensioni interne alla nuova maggioranza; d’altra parte, l’aumento del plafond per le imprese e l’allentamento della stretta sulle riaperture vanno nel senso auspicato dalla Lega e ottengono l’effetto collaterale di allentare la pressione di Salvini sul governo. Il pericolo viene dalle inchieste sull’operato del precedente governo, quella di Bergamo sul piano pandemico e quella di Roma sulle mascherine. La pm bergamasca Rota ha detto che il vertici del ministero sono stati “reticenti” su Alzano e Oms. Se ora fosse indagato qualche dirigente della Sanità, che dovrà fare Roberto Speranza?
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