La premier Giorgia Meloni lo ha presentato come “il taglio delle tasse più importante da decenni”. L’enfasi governativa è comprensibile, il decreto 1° maggio è stato firmato e l’Esecutivo si autocelebra. C’è più da meravigliarsi, invece, della reazione dei sindacati. Negli ultimi giorni le confederazioni avevano già reso l’aria piuttosto pesante.



Hanno criticato la Meloni per avere convocato il Consiglio dei ministri nel giorno della festa del lavoro, suscitando un duro botta e risposta. Hanno protestato per essere stati convocati all’ultimo momento per il confronto sul decreto lavoro. Ieri alla manifestazione nazionale di Potenza hanno rincarato la dose: “Troppa precarietà e poca sicurezza”, hanno detto Landini, Sbarra e Bombardieri.



Sulla precarietà, in effetti, la Triplice non ha tutti i torti visto che gli stessi addetti ai lavori si aspettavano un provvedimento più restrittivo in tema di contratti a tempo determinato. Il governo, invece, ha preferito venire incontro alle imprese, soprattutto quelle medie e piccole, che hanno ancora bisogno di flessibilità nelle assunzioni a termine in una fase economica di ripresa non ancora consolidata.

Certo, troppo facilmente, soprattutto in alcune grandi imprese, i contratti a termine si prestano all’abuso nei confronti dei giovani lavoratori a cui non viene dato un percorso di crescita e una stabilità professionale. Alla fine, nello scontro tra flessibilità e rigidità a perderci sono proprio le nuove generazioni. Se c’è una pecca grave, dunque, in questo decreto lavoro è che non si affronta il problema dell’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e la loro stabilizzazione.



Sul resto, invece, le proteste sindacali suonano come ideologiche e aprioristiche. Con il governo Meloni, le confederazioni hanno deciso di rivestirsi nuovamente dei panni degli oppositori duri e puri. “Non basta un decreto per risolvere questi grandi temi”, ha detto Bombardieri della Uil. “Il governo mette delle toppe, ma serve una strategia: non si può andare avanti a colpi di propaganda”, gli ha fatto eco Landini della Cgil. E Sbarra (Cisl): “Il filo del dialogo con il governo è caduto, con troppi provvedimenti approvati senza coinvolgere le parti sociali”.

Dal palco del 1° maggio, dunque, è arrivata una chiusura totale. Evidentemente i sindacati hanno ritrovato la voce dopo che, negli ultimi anni, avevano sostanzialmente ratificato ogni scelta arrivata da Palazzo Chigi. Dopo lo scoppio della pandemia, le federazioni non hanno battuto ciglio davanti alle restrizioni poste ai lavoratori. Moltissime aziende hanno dovuto chiudere per la crisi e il sindacato ha accettato gli eventi come fossero ineluttabili. Quando poi al Governo c’era un uomo forte come Mario Draghi, il suo decreto lavoro (che prevedeva un aumento degli stipendi per i lavoratori che guadagnano fino a 35mila euro grazie a un taglio del cuneo fiscale inferiore a quello deciso dalla Meloni) era stato accolto con un entusiasmo di cui oggi non c’è traccia.

La presidente del Consiglio continua nella sua linea del silenzio. Nemmeno ieri, dopo il varo di importanti provvedimenti in materia fiscale e retributiva compresa la riforma del reddito di cittadinanza, Giorgia Meloni si è presentata per una conferenza stampa. È dai giorni successivi alla tragedia di Cutro che la premier non ha un dialogo faccia a faccia con i giornalisti. Ieri si è limitata a registrare un video a Palazzo Chigi in cui passeggia per gli uffici deserti. E sottolinea che “oggi, festa del lavoro, il governo sceglie di lavorare” mentre i sindacati protestano sotto la pioggia.

— — — —

Abbiamo bisogno del tuo contributo per continuare a fornirti una informazione di qualità e indipendente.

SOSTIENICI. DONA ORA CLICCANDO QUI