Il Governo con la prima presidente del Consiglio espressa dal partito erede dell’estrema destra si è insediato da oltre un semestre. La volontà di approvare il primo maggio un provvedimento a favore del lavoro poteva essere una buona iniziativa politica per proseguire nella linea di apertura/confronto avviata con gli incontri sindacali e dall’intervento fatto al congresso della Cgil. Per portare avanti quella linea di iniziativa si doveva arrivare al Consiglio dei ministri con un provvedimento che avesse la portata riformatrice del Jobs Act o, visto che correggeva profondamente il Reddito di cittadinanza, che aggiungesse alla nuova impostazione delle misure contro la povertà misure forti per sostenere lavoro e salari.
Il provvedimento adottato si presenta invece come un affastellamento di provvedimenti dove ognuno risponde al criterio di essere una risposta politica a un dibattito aperto, ma senza una visione unitaria e un’idea globale di ridisegno delle politiche del lavoro. Un’apparentemente piccola contraddizione presente nel provvedimento getta luce sulla fretta con cui sui è arrivati a fare i soliti gattini ciechi.
La revisione delle politiche sulla povertà, peraltro la parte più elaborata del provvedimento, è impostata cercando di portare al lavoro tutti coloro che, pur in condizioni di povertà, hanno età e possibilità di essere messi in condizione di tornare a essere attivi. Per loro si indicano percorsi di orientamento e formazione e anche facilitazioni contributive per le imprese che dovessero assumerli. Due sono le categorie cui si rivolge il provvedimento. Coloro che fanno parte di nuclei famigliari con accesso al nuovo assegno di inclusione e sono in condizione di essere sostenuti per tornare ad avere un’occupazione e coloro che, non avendo carichi famigliari, hanno un supporto economico per formazione e lavoro. Per questi ultimi, che pure sono quelli su cui dovrebbero concentrarsi prioritariamente gli sforzi per i percorsi di reinserimento lavorativo, non sono previsti gli sgravi assegnati alle imprese per l’assunzione di persone che devono uscire dalla condizione di povertà.
È apparentemente una piccola contraddizione del provvedimento, ma indica come le singole scelte non sono state supportate da una visione unitaria e dalla volontà di incidere realmente sulle condizioni del lavoro di oggi.
Per partire proprio dall’offerta di servizi per supportare gli occupabili si torna ancora alla condizionalità. Prima si erogano i fondi e poi i servizi preposti, i Cpi, dovranno chiamare e proporre. Sono fatti più stringenti i margini che obbligano a frequentare corsi e ad accettare le possibilità di lavoro indicate. Già oggi i Cpi soffrono di grandi ritardi o perché sottodotati di personale o, soprattutto, perché sono strutturati per gestire i flussi burocratici ma poco orientati a gestire l’incontro fra domanda e offerta di lavoro. È indispensabile invertire il flusso. Chi si presenta per servizi di politica attiva del lavoro ed è in condizione di povertà ottiene i servizi e anche il sostegno economico. Per accogliere tutti la rete pubblica non basta. Ma anche in questo provvedimento non si è avuto il coraggio di aprire ai soggetti privati capaci di potenziare l’offerta di servizi per le politiche attive del lavoro. Eppure è evidente che senza creare una rete di operatori pubblici e privati non si riuscirà a gestire la domanda di orientamento, formazione e supporto agli inserimenti lavorativi che interesseranno nei prossimi anni i tanti disoccupati od occupati che saranno coinvolti in transizioni lavorative.
Altro punto dove la scelta pare dettata dalla volontà di differenziarsi dai provvedimenti dei Governi precedenti ma si rischia di fare peggio è la scelta di tornare alla causa giustificativa per i contratti di lavoro temporaneo. Come ampiamente dimostrato dalla storia, ciò comporta solo un aumento dei contenziosi giudiziari senza incidere sulle scelte delle imprese. Poteva essere la volta per intervenire sul costo dei contratti a termine per rendere la scelta sicuramente temporanea e sostenere il passaggio ai tempi indeterminati. Questa impostazione avrebbe aperto la porta a un potenziamento del provvedimento entrando nel merito dei problemi più rilevanti per l’attuale mercato del lavoro.
Bene proseguire con il taglio della fiscalità sui salari, ma sono provvedimenti che per diventare strutturali devono incontrarsi con una crescita economica. Sostenere occupazione e salari nei prossimi mesi chiede che venga affrontato il tema del salario minimo. Per la struttura del nostro Paese non può che essere affrontato come estensione e sostegno dei minimi contrattuali fissati dalla contrattazione.
Da qui viene l’esigenza di affrontare il tema del riconoscimento costituzionale dei sindacati e della loro rappresentatività. C’era il tempo di preparare questo passaggio essenziale se la maggioranza avesse una sua idea di come affrontare un nodo non più rinviabile. La pressione su questo tema continuerà a crescere perché la fissazione del salario minimo crea la base per una serie di interventi salariali, contrattuali e legislativi per quei settori dove il lavoro nero e la precarietà sono endemici e che richiedono più flexsicurity. Cioè interventi mirati che diano tutele e diritti con contratti che però siano adeguati alla flessibilità insita in molti nuovi lavori.
Ultima annotazione riguarda il capitolo giovani. La parte sull’alternanza contraddice le promesse di favorire la crescita del sistema duale di cui si attende un provvedimento a breve. Da un lato, si vuole potenziare la formazione attraverso il lavoro e, dall’altro, si torna a concepire l’esperienza lavorativa come non formativa. In più si torna a fare sconti contributivi per favorire le assunzioni. Avrebbero ottenuto un risultato sicuramente migliore estendendo e facilitando il ricorso a contratti di apprendistato per l’inserimento di giovani al lavoro abolendo tutti quei contratti (stages e tirocini) che non sono lavorativi e si prestano ad abusi continui.
Complessivamente un provvedimento che potrebbe chiamarsi “una occasione persa”.
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