Provvidenzialmente accantonata una pessima (contro) riforma delle pensioni, il Governo Meloni continua a mandare segnali di fumo in materia di lavoro e di nuova occupazione; e ovviamente senza dimenticare le scadenze dell’abolizione del Reddito di cittadinanza. Intanto si attende lo stanziamento dei tre miliardi e rotti sul cuneo contributivo, promessi nel Def. Maurizio Landini ha già detto che tre miliardi non sono sufficienti, ma che serve una decontribuzione di 5 punti.



Questo ukase del leader della Cgil somiglia un po’ al gioco delle tre carte. La richiesta del taglio di 5 punti venne sollevata anche nell’ambito della Legge di bilancio, che di punti per i redditi più bassi ne aveva tagliati 3 per un ammontare di 4,8 miliardi. Con l’ulteriore stanziamento – sia pure in due rate – si arriva proprio alle richieste del sindacato. Inoltre, il Governo Meloni concentra il taglio dei contributi a favore dei lavoratori senza riservare nulla alle imprese (come avevano fatto a suo tempo, il Governo Prodi ed altri esecutivi di centro-sinistra).



Autorevoli organi di stampa nei giorni scorsi hanno diffuso alcune indiscrezioni su di un decreto a cui starebbe lavorando il Governo e che verrebbe messo l’ordine del giorno di una prossima riunione del Consiglio dei ministri. Uno degli obiettivi dovrebbe riguardare la modifica del Decreto dignità in materia di lavoro a termine. Così come fu concepito dal governo Conte 1 quel provvedimento si rivelò, a maggior ragione con l’avvento della pandemia (Disposizione in materia di proroga o rinnovo di contratti a termine 1. In deroga all’articolo 21 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, per far fronte al riavvio delle attività in conseguenza all’emergenza epidemiologica da Covid-19, è possibile rinnovare o prorogare fino al 30 agosto 2020 i contratti di lavoro subordinato a tempo determinato in essere anche in assenza delle condizioni di cui all’articolo 19, comma 1, del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81), in balia di un’eterogenesi dei fini, in quanto, piuttosto che promuovere, dopo il primo anno durante il quale non era richiesta l’indicazione di causalità, la trasformazione in un rapporto a tempo indeterminato, finiva per provocare un turnover dei contrattisti a termine, perché le aziende erano costrette ad assumere un altro lavoratore, perché non avevano la possibilità di rinnovare il contratto a tempo determinato alla stessa persona.



i dice che il decreto dovrebbe, trascorso il primo anno, avvalersi di causalità meno vincolanti di quelle previste nel Decreto dignità. Si annunciano nuove causali Ma proprio qui sta il punto. Il Decreto Poletti nel 2014 aveva abolito per un triennio il c.d. causalone (ovvero il riferimento alle esigenze organizzative, produttive e quant’altro), perché, pur nella sua genericità, era sempre passibile di una valutazione giudiziale. Da quanto si è letto, il c.d. causalone dovrebbe fare di nuovo la sua comparsa nel decreto come motivo per proseguire con rapporti a termine anche dopo il primo anno in regime di acausalità. Il che sarebbe un errore perché ci riporterebbe alla situazione che il Decreto Poletti aveva superato.

Un ulteriore elemento di dubbio riguarda l’introduzione di un altro incentivo all’occupazione. Per contrastare il fenomeno dei Neet, nella bozza del Decreto lavoro è previsto un incentivo rafforzato che prevede sgravi del 60% per chi assume under 30 registrati al programma “Iniziativa occupazione giovani”. Pare che Meloni, in proposito, abbia sollecitato il Lavoro a essere più coraggioso. Ma fino a che punto è utile la politica degli incentivi, quando ormai ve ne sono di tutti i tipi? Di solito gli incentivi finiscono per riferirsi ad assunzioni che in larga misura le aziende avrebbero fatto ugualmente. Un’impresa che assume al solo scopo di incassare l’incentivo senza averne un’esigenza effettiva non è affidabile sul versante della continuità dei rapporti di lavoro istaurati quando l’incentivo viene a scadenza. È prudente allora muoversi in una logica di sperimentazione corredata degli opportuni monitoraggi.

Per quanto concerne l’istituto destinato a sostituire il Reddito di cittadinanza le novità sono due tra loro collegate: la prestazione si divide in tre tipologie, ciascuna con una funzione contraddistinta da un acronimo specifico:

– la Gil, Garanzia per l’inclusione lavorativa, potrà essere chiesta dalle famiglie, con Isee fino a 7.200 euro, al cui interno vi sia almeno un minore, un disabile, un anziano con più di 60 anni o un invalido civile.

– la Gal, Garanzia per l’attivazione lavorativa, potrà essere richiesta dalle famiglie con Isee fino a 6mila euro, composte solo da adulti tra 18 e 59 anni.

– la Pal, Prestazione di accompagnamento al lavoro, è prevista a favore dei beneficiari attuali del Rdc considerati occupabili che, al momento della scadenza nel corso del 2023 del periodo massimo di sette mesi di fruizione del beneficio, hanno sottoscritto il patto per il lavoro e sono inseriti in misure di politica attiva del lavoro.

Con l’aria che tira è opportuno che il Governo faccia attenzione agli acronimi. Dal momento che gli avversari politici sono assatanati nell’imputare alla nuova maggioranza nostalgie con il regime fascista, è bene che Meloni prenda nota di quanto segue. L’acronimo Gil è lo stesso di Gioventù italiana del Littorio. Ovviamente scherziamo, ma con i tempi che corrono e con la pochezza degli argomenti in circolazione possiamo aspettarci di tutto.

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