È bene seguire il consiglio del leader della Cisl, Luigi Sbarra: meglio leggere il testo prima di tranciare giudizi sul decreto/lavoro del 1° maggio. Ma a giudicare dal tono e dal contenuto dei commenti (non solo dei dirigenti sindacali, ma anche dei principali quotidiani) basterebbe avere un po’ di onestà intellettuale per sentirsi in dovere di difendere il Governo.



Un osservatore privo di pregiudizi che si limitasse a valutare le notizie relative all’incontro tra Governo e sindacati e le anticipazioni di stampa non potrebbe che pervenire a queste conclusioni: il decreto Meloni è più o meno lo stesso di quelli altri precedenti Governi e che avrebbe fatto un diverso Governo uscito dalle elezioni del 25 settembre, almeno per quanto riguarda le questioni che non rientrano nel pacchetto che ha finalmente trovato il nome di Assegno di inclusione, dopo tanto girovagare all’anagrafe. L’abolizione del Reddito di cittadinanza, infatti, è un caso a parte, perché costituisce una scelta “identitaria” dell’attuale Governo, che va giudicata in primo luogo in generale, poi per come viene attuata.



Senza entrare nel merito, ci accontentiamo di una battuta: i beneficiari che si aspettavano la Santa Inquisizione, con tanto di tribunali e supplizi, possono mettersi tranquilli. Se la caveranno con una sfilza di “pater-ave-gloria” e qualche digiuno il venerdì. Ma l’operazione tesserina/gialla che immortalò, trionfanti, i boss del Governo Conte-1, non sarà smantellata, neppure per quei beneficiari che saranno giudicati occupabili, anche se – ammesso che sia possibile – dovranno sobbarcarsi qualche onere in più e percepire assegni ridotti per un tempo più breve. Ma anche per l’ex RdC vale il detto “finché c’è vita, c’è speranza”. Il bello viene con la riduzione del cuneo contributivo.



Cgil, Cisl e Uil hanno portato in giro per l’Italia una piattaforma che rivendicava: “La riduzione del cuneo contributivo di 5 punti fino a 35.000 euro di reddito annuo va fatta subito, e tutta a vantaggio dei lavoratori”; il Governo gliene ha offerti ben 7 e loro hanno lamentato che non hanno carattere strutturale ma verranno a scadenza alla fine del 2023. Il fatto è che tutta la decontribuzione accumulata finora era a tempo, nel senso che vi era prevista una scadenza, raggiunta la quale interveniva una proroga. Così è stato nel passaggio tra Draghi e Meloni. Ora (sia pure con lo scalino tra il 25mila e i 35mila euro) si è arrivati con la decontribuzione a un importo intorno agli 11 miliardi che corrispondono grosso modo a 80 euro netti in busta paga. È abbastanza improbabile che il Governo o un altro Governo dopo questo faccia marcia indietro. Prima o poi matureranno le condizioni (ricordiamo il bonus di Matteo Renzi?) per rendere strutturale questa misura. Per ora la temporaneità consente di contenere l’onere della copertura.

Da quello che fino ad ora si è capito, il Governo sarebbe intenzionato a re-introdurre il c.d. causalone (ovvero le ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo, sostitutivo) per la proroga di un rapporto a termine una volta che siano stati superati i periodi (12 o 24 mesi) concessi alle imprese per farvi ricorso senza alcuna causalità. Il Decreto Poletti del 2014 era rivolto a liberalizzare per 36 mesi in regime di acausalità il contratto a tempo determinato, superando lo stesso “causalone” perché consentiva, nonostante le sua genericità, l’accertamento in giudizio delle ragioni dell’utilizzo del lavoro a termine, magari per trasformarlo a posteriori in un rapporto a tempo indeterminato per via giudiziale. Poi, basta con questa storia della precarietà su cui è intervenuta, a commento del decreto Elly Schlein. La riforma del 2014, contribuì a sbloccare il mercato del lavoro, in misura maggiore di tutti gli incentivi alle assunzioni che da allora erano stati varati. In sostanza – anche con il supporto funesto dei media – si continua a deprecare un’occupazione che sarebbe “cattiva” proprio perché a termine, dimenticando che l’Italia ha uno dei più elevati tassi europei (e non solo) di impieghi stabili.

Va smentito il luogo comune secondo il quale c’è un po’ di occupazione in più, ma è tutta precaria, volatile, destinata a sparire al primo stormir di fronte.  “È falso – ha scritto Claudio Negro – che il contratto di lavoro più diffuso sia quello a termine: nel 2022 i lavoratori con contratti a tempo indeterminato hanno superato stabilmente i 15 milioni, record di sempre. Sul totale dei lavoratori dipendenti i rapporti stabili hanno toccato l’83,4%, in rialzo di 0,7% rispetto al 2021. La differenza (16,6%) è del tutto in linea con la media dell’Unione europea”.

In realtà i sindacalisti giocano (forse inconsapevolmente vista l’attitudine a dire la prima cosa che viene loro in mente) sulla confusione ingenerata dal confondere contratti in essere con attivazioni di contratti: gli 8,5 milioni di contratti a termine attivati nel 2022 non corrispondono a 8,5 milioni di lavoratori assunti a termine, ma a un numero molto inferiore, perché ad ogni lavoratore in un anno corrispondono normalmente diversi contratti a tempo determinato; infatti a fine 2022 risultavano essere poco più di 3 milioni i lavoratori con contratti a termine (contro, giova ripeterlo, gli oltre 15 milioni di contratti stabili).

Nessuno tiene conto che è in atto un’inversione di tendenza. Come ha ricordato sul Bollettino Adapt un esperto di vaglia quale Francesco Seghezzi. “nell’ultimo anno la fotografia del mercato del lavoro italiano ha visto una inversione di rotta della quale nessuno sta parlando. Tra il febbraio 2022 e il febbraio 2023 infatti, secondo Istat, gli occupati permanenti (quelli a tempo indeterminato) sono cresciuti dall’82,6 all’83,8 per cento del totale dei lavoratori dipendenti, con una crescita in termini assoluti di ben 515 mila unità raggiungendo la cifra più alta da quanto esistono le serie storiche. Nello stesso arco di tempo la quota di occupati temporanei sul totale dei dipendenti è scesa dal 17,4 al 16,2 per cento, 143mila unità in meno. Sia chiaro – ha proseguito Seghezzi – la percentuale di occupati temporanei resta elevata rispetto ad altri Paesi europei (siamo al quinto posto in classifica) e il numero degli occupati temporanei resta tra i più alti di sempre, ma dopo una crescita molto marcata nella fase immediatamente post-pandemica il rallentamento è evidente”.

Ma perché sforzarsi a comprendere la realtà – si chiedono i leader sindacali – quando è più facile e gratificante inventarsela?

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