Nella giornata di mercoledì 18 ottobre u.s., su proposta dell’onorevole Stefano Ceccanti del Partito democratico, la Commissione affari istituzionali della Camera dei deputati ha approvato un emendamento al decreto immigrazione, nella fase di conversione in legge, che modifica la norma che prevede l’emanazione di uno specifico decreto flussi annuale, o in carenza di questo con un apposito provvedimento del Presidente del consiglio, finalizzato a definire il tetto massimo per gli ingressi di cittadini stranieri extracomunitari per motivi di lavoro subordinato, autonomo o stagionale. Nello specifico, l’emendamento elimina la scadenza annuale del 30 novembre per l’emanazione del decreto e il vincolo di prevedere un tetto per le diverse tipologie di ingresso per motivi di lavoro. Una novità che, in assenza di una riforma organica di questo istituto, prefigura nei fatti l’obiettivo di liberalizzare le quote di ingresso degli immigrati extracomunitari.
U’ iniziativa che nel corso di una crisi economica senza precedenti rasenta la follia. Non solo per le evidenti incertezze del contesto economico, ma per le conseguenze che ne potrebbero derivare per le stesse condizioni degli immigrati regolarmente residenti in Italia. Francamente non si comprende quali analisi del nostro mercato del lavoro abbiano ispirato i protagonisti di questa iniziativa. A quanto pare non sono bastati i numeri rilasciati periodicamente dall’Istat sull’andamento del nostro mercato del lavoro che evidenziano una crescita della disoccupazione e degli inattivi immigrati a livelli record, +270 mila rispetto al secondo trimestre del 2019, sino a superare la cifra dei 650 mila disoccupati. E nemmeno che lo stesso istituto di statistica abbia confermato come nel corso degli ultimi anni, ben prima della crisi Covid, il 30% delle famiglie immigrate residenti in Italia fosse ridotto in condizioni di povertà assoluta. Una cifra che raggiunge il 66% dei nuclei di riferimento sommando la quota delle famiglie a forte rischio di impoverimento, per effetto delle condizioni salariali inadeguate e della frammentarietà dei rapporti di lavoro, molti dei quali a orario ridotto.
Tutto questo, in un mercato del lavoro che complessivamente vede escluse oltre 5,5 milioni di persone, considerando in questo numero i disoccupati e le persone inattive scoraggiate nella ricerca di lavoro, destinate ad aumentare in modo sensibile nel corso della crisi economica in atto. Solo un furore ideologico fine a se stesso, del tutto simile a quello che ha invocato con successo la fallimentare sanatoria basata su rapporti di lavoro simulati per la finalità di regolarizzare la presenza di nuovi immigrati, può offrire una spiegazione per questi comportamenti.
Nell’auspicio che un atto di buon senso della maggioranza che sostiene il Governo ponga rimedio all’emendamento in questione, vale la pena evidenziare le conseguenze economiche, giuridiche e politiche negative che possono essere generate dalla norma in questione. Sul piano economico, un potenziale di nuovi ingressi finalizzato ad alimentare ulteriormente dei mercati del lavoro caratterizzati da rilevanti quote di lavoro sommerso non potrà che peggiorare le condizioni salariali e di lavoro dei lavoratori in questi settori, e in particolare quelle degli immigrati regolarmente residenti in Italia. Giova ricordare che il 40% dei lavoratori immigrati percepisce salari al di sotto della no tax area, e che oltre il 50% dei nuovi rapporti di lavoro avviati nel corso del 2019 per lavoratori stranieri è durato meno di tre mesi.
Sul piano giuridico tale norma genera un vuoto che non ha paragoni nei Paesi sviluppati. Al di là degli orientamenti politici dei governi rispetto al tema dell’immigrazione, nessuno di questi Paesi si sogna di liberalizzare le quote di ingresso di nuovi immigrati per motivi di lavoro. Molti non prevedono i tetti per le quote di ingresso perché hanno introdotto norme ancora più restrittive per il rilascio dei permessi di ingresso per motivi di lavoro basate sulla verifica della congruità delle domande delle aziende, sui requisiti professionali degli immigrati e dell’apprendimento della lingua nazionale. Tutto questo per la semplice ragione che la sostenibilità dei percorsi migratori, e di integrazione sociale, dipende essenzialmente dalla realistica possibilità di offrire un lavoro dignitoso e relativamente duraturo. La stessa ragione che porta a distinguere le regole per l’accoglienza dei rifugiati, che sulla base di quanto previsto nei trattati internazionali sottoscritti è dovuta a prescindere dalle condizioni economiche del Paese di accoglienza, da quella degli ingressi dei migranti in arrivo per ragioni economiche, e che ogni Paese programma sulla base di effettivi fabbisogni.
La confusione sul merito che continua a caratterizzare le politiche migratorie italiane genera delle conseguenze politiche. La percezione internazionale di un Paese dove le norme che regolano le diverse tipologie di ingresso possono essere facilmente aggirate comporta delle conseguenze nefaste sui comportamenti dei vari protagonisti che interagiscono con la formazione dei flussi migratori, siano essi motivati dalle aspettative del tutto comprensibili degli immigrati che ambiscono a migliorare le condizioni di vita, ovvero da quelle meno nobili degli intermediari e degli attori economici che lucrano sulla vita di queste persone. Ma non si deve nemmeno ignorare che queste iniziative, in particolare la recente sanatoria e l’emendamento in questione, finiscono per aumentare le resistenze degli altri Paesi europei verso la necessità di condividere gli obblighi, e gli oneri, dell’accoglienza dei rifugiati. Un Paese che ritiene autonomamente di ampliare senza limiti gli ingressi agli immigrati ha pochi titoli nell’esigere la solidarietà degli altri Paesi aderenti all’Ue facendo leva sull’argomento dell’insostenibilità di questi nuovi flussi migratori.
La qualità del dibattito e delle scelte sulle politiche migratorie in Italia ha raggiunto livelli di degrado imbarazzanti. L’indicatore provato dell’incapacità di analizzare le condizioni del nostro mercato del lavoro e di avere una corretta percezione dei problemi che ci attendono nell’immediato futuro.