In un momento di eccezionale difficoltà come quello attuale, le imprese affrontano gravi problemi di liquidità. Sull’urgenza di interventi pubblici in grado di fornire garanzie e liquidità alle imprese quasi nessuno dubita – anzi, molti osservatori ne lamentano la scarsa tempestività e l’eccessiva farraginosità. È invece più controverso il tema dell’opportunità di interventi pubblici nel capitale delle imprese, mediante i quali lo Stato assumerebbe una quota proprietaria delle imprese. Si tratterebbe di interventi finalizzati a prevenire scalate ostili da parte di investitori stranieri, che dovrebbero esaurirsi una volta superata la crisi. Almeno nelle intenzioni iniziali, sono dunque destinati a essere temporanei.



La storia ci insegna, però, che la spiccata attitudine del nostro Paese all’inerzia fa sì che ciò che è provvisorio abbia spesso un’irresistibile propensione a diventare definitivo. Dobbiamo quindi cominciare a porci il problema di quale possa essere l’effetto del ritorno dello Stato imprenditore nell’economia italiana. Per provare a capirlo, possiamo certo avvalerci dell’abbondante materiale storico a nostra disposizione, grazie all’esperienza sessantennale, con alti e bassi, dell’Iri. Ma dobbiamo anche tenere conto del fatto che il mondo di oggi è evoluto significativamente rispetto a quello di qualche decennio fa.



Le differenze saltano subito agli occhi. Il mondo diventa sempre più complesso e interconnesso. La tecnologia progredisce a ritmi rapidissimi. Incide profondamente sia sul settore manifatturiero che su quello dei servizi: in particolare, ma non solo, quelli bancari e finanziari. Ciò richiede alle imprese continui aggiustamenti – talvolta, anche cambi radicali – della propria strategia. La globalizzazione muta continuamente la geografia delle filiere produttive, richiedendo ai manager grande esperienza e capacità relazionale. Le competenze tecniche sono sempre più importanti, e al contempo si deprezzano molto velocemente, rendendo necessario un loro costante aggiornamento. In questo contesto di rapidi cambiamenti, gestire un’impresa è sempre più difficile, così come è difficile per chi possiede un’impresa selezionarne i manager.



Cosa implica questo per le probabilità di successo dello Stato imprenditore?

Primo: lo Stato ha, al suo interno, le competenze per selezionare al meglio i manager di eventuali imprese nazionalizzate? È lecito dubitarne. I nostri governi incontrano, come riscontriamo ogni giorno, grandi difficoltà a realizzare in modo adeguato le attività che sono loro proprie, ad esempio la gestione della scuola, della sanità e delle infrastrutture stradali. È poco realistico, forse utopistico, pensare che, ampliando ulteriormente le competenze, migliori la gestione. Al contrario… Si potrebbe obiettare che esistono imprese di grande successo anche in Italia, con rilevante azionariato pubblico.

Questo è sicuramente vero, se consideriamo, ad esempio, i casi di Enel, di Eni e di Leonardo per citarne ad alcuni. Tuttavia, queste imprese ereditano una struttura che si è consolidata e affinata nel corso degli anni, e che, inoltre, è stata soggetta a privatizzazioni e quotazione negli anni proprio per ridurre la partecipazione statale. Accanto a queste eccellenze, esistono molte altre imprese a capitale e gestione pubblici con prestazioni molto meno brillanti, a voler usare un eufemismo. Molte imprese nei settori dei servizi pubblici e delle infrastrutture ne sono esempi evidenti. Inoltre, anche storicamente, ai casi di successo sopra citati si sono affiancati numerosi, e costosi, casi di insuccessi: pensiamo, ad esempio, all’Efim, all’Alfa Romeo degli anni Ottanta, oppure al caso dei molti cosiddetti “carrozzoni” pubblici. Dunque, per le nostre eccellenze dello Stato imprenditore, abbiamo pagato il prezzo, implicito ma molto salato, di molti fallimenti.

Secondo: anche ammettendo che lo Stato avesse le competenze imprenditoriali, avrebbe gli incentivi per farlo al meglio? Di questo, forse, è lecito dubitare ancora di più. La politica risponde anche agli interessi elettorali, che non necessariamente coincidono con gli interessi di lungo periodo del Paese, e questo potrebbe avere un impatto decisivo e deleterio sulle scelte di un ipotetico Stato imprenditore. Come verrebbero scelti i settori su cui intervenire? Sarebbero effettivamente quelli in cui l’intervento imprenditoriale dello Stato potrebbe essere il più incisivo, o non sarebbero, invece, quelli da cui i partiti di governo in quel periodo otterrebbero il maggior tornaconto elettorale? Nella gestione, si valorizzerebbero effettivamente le competenze e le professionalità, o non prevarrebbero sacche di clientelismo? Lo Stato imprenditore rinuncerebbe ai progetti che dovessero rivelarsi insuccessi, o non li porterebbe comunque avanti per evitare di dover ammettere un insuccesso?

C’è un ulteriore problema di fondo: che l’approccio burocratico che contraddistingue (in un certo modo come è logico che sia) l’azione dello Stato mal si adatta alle esigenze imprenditoriali, che richiedono invece rapidità e flessibilità nell’elaborare le strategie, e nel modificarle e nell’adattarle ove un cambiamento di contesto lo rendesse necessario.

La questione sullo Stato imprenditore va affrontata con una dose di sano realismo: non serve chiedersi che cosa potrebbe, utopisticamente, fare uno Stato ideale all’interno di un sistema economico ideale, ma che cosa può fare questo Stato all’interno di questo sistema economico.

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