La nuova lenzuolata di bonus, per usare una vecchia definizione dei decreti omnibus per provvedimenti economici, cerca di inseguire tutti i possibili fruitori di sostegni al reddito, ma con scarsa capacità di indicare un orizzonte comune verso cui muoversi. Dobbiamo ritenere importante che alcune norme a favore delle imprese, per dare liquidità e sostenere la ripresa di investimenti e produzione, sono state inserite. Le risorse mobilitate per la ripresa produttiva sono però lontane dalle necessità che possiamo già rilevare dai costi del lockdown. Ogni mese di stop della nostra economia vale circa 50 miliardi di euro. Significa oltre 5 punti di Pil ogni 3 mesi. Serviranno sicuramente molte risorse che potranno arrivare solo dall’Europa, ma ciò sarà possibile solo dopo l’autunno. Nel frattempo è indispensabile che si concentrino le nostre risorse disponibili per generare uno shock produttivo che rilanci la nostra industria e avvii una forte ripresa della produzione manifatturiera.



L’Italia arriva alla crisi da pandemia senza avere ricostruito la capacità produttiva del 2008. Ha perso capacità produttiva e produttività rispetto ai concorrenti diretti. Se uscissimo dalla crisi in corso con un ulteriore arretramento rischieremmo di dare il colpo di grazia alla nostra forza industriale.

Il segno di voler inseguire i bisogni di tante frazioni sociali con assegni dedicati, oltre al reddito, a singoli bisogni, rischia di favorire ancora politiche di sussidi e non rimettere in moto le risorse materiali e umane che sono indispensabili per sostenere una nuova fase di sviluppo. Un’alleanza fra il Paese della rendita e il Paese del reddito garantito sarebbe letale per un sistema industriale ed economico già indebolito e che attende invece segnali decisi per una nuova fase di crescita.



Molte misure che sono state prese con l’ultimo decreto potevano assumere un significato diverso se organizzate diversamente. Un esempio per tutti è il bonus turismo. Le stesse risorse assegnate agli operatori del settore per calmierare i costi di determinate offerte di servizi di vacanza avrebbero agito come moltiplicatore e avrebbero favorito ben più utenti di quanti saranno interessati a usare il bonus assegnato alle famiglie.

Il tratto di sintesi del provvedimento appare quindi ancora troppo condizionato da una lettura superficiale di quanto sta avvenendo. Si insegue ancora il tentativo di assegnare risorse a copertura della perdita di reddito subito dai diversi attori sociali senza però collegare tale azione agli investimenti necessari perché riparta l’economia e quindi la capacità di ripagare il debito che si va accumulando. È, a mio parere, ancora sottovalutata la caduta che avremo in termini di andamento economico e dell’occupazione.



In particolare, per questo ultimo aspetto il decreto rilancio non introduce pressoché nessuna novità. È vero che rispetto alla fase 1 si è preso atto che la povertà non solo non è stata abolita ma è sfuggita anche al reddito di cittadinanza e così si è aggiunto un reddito di emergenza per i più poveri per due mensilità. Si è anche capito che il decreto dignità ingessa il mercato del lavoro e quindi si è sospesa l’applicazione delle norme per il rinnovo dei contratti a tempo determinato. Per il resto si è però scelto di estendere la cassa integrazione, in tutte le sue forme, per altri 90 giorni e in parallelo si è esteso il blocco dei licenziamenti. Ulteriori misure mirate (colf, babysitter, ecc.) di sostegno al reddito accompagnano l’estensione dei bonus per partite Iva e lavoratori autonomi.

Insomma, si è proseguito nel cercare di vincolare i posti di lavoro esistenti e sostenere i redditi. Ci si augura che poi si riesca realmente a recuperare sui tempi di pagamento visti i vergognosi ritardi con cui stanno arrivando gli assegni delle casse integrazioni.

La difesa del lavoro e la sicurezza del reddito non possono però essere portate avanti solo con questi strumenti. Quando il blocco licenziamenti assicurato dalla cassa integrazione finirà avremo una crescita di disoccupati che si sommerà a quanti già ora sono stati lasciati a casa (i disoccupati, nonostante la Cig, crescono dello 0,5% al mese). Ci si poteva aspettare un primo intervento di misure di politica attiva che iniziasse a disegnare nuovi servizi e la proattivazione di chi già ora è a carico di Naspi, reddito di cittadinanza e dis-coll. Avviare cioè quei servizi che, utili anche per integrare lo scarso reddito assicurato dai nostri ammortizzatori sociali, per una fase saranno necessari a sostegno della separazione fisica in trasporti, servizi collettivi, ecc. A questo potrebbero aggiungersi anche nuovi cantieri di lavori civici per ridisegnare le città.

Unica misura inserita nell’ultimo provvedimento è invece uno stanziamento di 230 milioni, assegnati ad Anpal, per finanziare eventuali accordi frutto di contratti aziendali o territoriali che prevedano una riduzione dell’orario di lavoro finalizzata a percorsi formativi in risposta a esigenze organizzative o produttive dell’azienda. Per capirci, a 10 euro l’ora, se si calcolano 4 ore a settimana di formazione per 10 settimane, si sono finanziati possibili accordi per 56 mila lavoratori. Meno di quanti potrebbero accedere a tali accordi nella provincia di Milano.

È l’esempio di come si stia sottovalutando la situazione. L’obiettivo di un grande piano di formazione per adeguare le competenze è indispensabile e dovrà coinvolgere soprattutto lavoratori dei settori economici più colpiti e che dovranno cambiare quindi attività. Dare compito ad Anpal (magari con Presidente presente e adeguato) di iniziare a coordinare un’offerta da parte dei fondi interprofessionali, cui riconoscere anche una restituzione delle risorse sottratte e bloccate con i provvedimenti degli anni passati, avrebbe mobilitato più risorse e soprattutto aperto una strada per disegnare e predisporre i servizi al lavoro che saranno indispensabili dall’autunno prossimo.

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