Non è problematico definire questa cosiddetta “super-manovra” di 55 miliardi una grave occasione perduta. Viene chiamata come “rilancia Italia” o anche “manovra doppia o tripla”, ma è un decreto che dovrà poi attraversare le forche caudine delle Camere e soprattutto la prova del nove della sua rapida se non immediata attuabilità, cioè se sarà in grado di risolvere i problemi urgenti degli italiani e indirizzare, almeno come visione, l’immediato futuro del Paese. Gli italiani sono passati dai canti sui balconi dei primi giorni di quarantena alle continue, ripetute manifestazioni di insofferenza e contestazione.
Si aggiunga a tutto questo, proprio mentre si discuteva e litigava all’interno del governo in questi ultimi quindici giorni, un riscontro della “regina dei sondaggisti”, Alessandra Ghisleri, pubblicato su La Stampa e poi ripetuto in televisione, dove solo un italiano su cinque aveva ancora fiducia nei politici.
Quasi un incubo per la nostra democrazia e un futuro malinconico per un paese talmente piegato da una prova così dura, da una tragedia devastante di tre mesi per la pandemia che lo ha investito soprattutto in alcune regioni del Nord, nella sua parte più produttiva.
Il decreto è già arrivato in ritardo ed è complicato nella comprensione per il suo articolato infinito, tipicamente italiano, e soprattutto insufficiente per quanto riguarda una visione del futuro. Insistiamo sul ritardo, perché di questo decreto si è cominciato a parlare il 18 marzo (quanti miliardi si sono persi?) cambiando più volte nome, mentre molti italiani si lamentavano per il mancato arrivo dei soldi della cassa integrazione in deroga, per la liquidità che doveva sgorgare come da “rubinetti” delle banche, ma che invece hanno dimostrato di essere anche loro aggrovigliate in regole micidiali, a cui si aggiunge il peso della storica burocrazia italiana, un “must” demenziale per uno Stato democratico moderno, che è stato comunque sempre difeso al momento giusto.
Proviamo ad andare a vedere chi si è opposto in passato a tutte le “grandi riforme” statali proposte fin dagli anni Ottanta, contrabbandate e attaccate come “sintomi di autoritarismo” o concessioni alla malavita organizzata, non tenendo mai conto anche della cultura imprenditoriale e della vitalità sociale degli italiani.
Combattere la malavita organizzata, che si infila negli affari, è un obiettivo primario, senza però restringere fino a reprimere la possibilità di intraprendere, di investire per i privati onesti e per gli enti pubblici trasparenti. Controllo di legalità non è sinonimo di “mani legate” e “cultura del sospetto” su tutto e su tutti.
Torniamo comunque al decreto che dovrebbe rilanciare l’Italia. Si può dire che c’è un poco per tutti, per pochi mesi, ma non si vede alcuna prospettiva reale. Qualcuno, per alcuni giorni, può tirare un respiro di sollievo, ma poi si trova di fronte il vuoto del futuro…
Del resto i commenti in generale, di persone non certo schierate contro questo governo, sono indicativi. Sabino Cassese, sul Corriere della Sera, conclude la sua disamina così: “Il governo avrebbe avuto almeno un’altra alternativa. Invece di scegliere la direzione del risarcimento (quella del “dare”, che sconfina nell’assistenzialismo), prendendo la strada dell’accelerazione, cogliendo l’occasione della crisi per moltiplicare i suoi investimenti, sbloccando le procedure arrugginite, e per sgravare di vincoli, anche fiscali, gli investimenti privati, in modo da dare un impulso all’economia in generale, con ricadute in tutti i settori”. Più secco e duro Sergio Rizzo su la Repubblica: “Anziché un decreto lungo come I Buddenbrook di Thomas Mann, nato dopo un paio di mesi di gestazione e che si bloccava ogni giorno perché certi grillini erano contro la sanatoria dei migranti che non c’entra nulla con il blocco dell’Irap o le bici elettriche, non si potevano fare più provvedimenti, coerenti per materia, snelli e mirati? Magari certi problemi non sarebbero stati certo risolti, però di sicuro affrontati”.
Il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, cerca di essere diplomatico, ma alla fine non ce la fa: “Bene aver evitato l’aumento dell’Iva così come l’Irap di giugno. Bene come abbiamo chiesto i primi indennizzi a fondo perduto. Ma serve subito più liquidità vera per le imprese che ancora non c’è”. In realtà Sangalli afferma: “Servono più risorse a fondo perduto. Più contributi per la filiera del turismo, della ristorazione e per i negozi che devono riaprire. Più tempo per le scadenze fiscali. La crisi è di proporzioni mai viste, occorre un’azione più forte e strategica per un vero rilancio del Paese”.
Ma questa ultima parte della dichiarazione di Sangalli, come i rilievi fatti dai commentatori prima citati, sembrano denunciare una sottovalutazione, un’incomprensione da parte del governo della portata e della gravità della crisi che il Paese sta attraversando e della rabbia, nemmeno più del rancore, che si sta accumulando.
Non solo. C’è come una denuncia sottotraccia, non formulata esplicitamente, della protesta di tanti: ma questo governo comprende che cosa significa chiudere per due mesi un bar, un ristorante, un negozio, una pizzeria, o quanto altro, dove si sono pagati magari affitti, bollette di ogni tipo e pure i contributi anche ai pochi dipendenti e non si è fatto un euro di fatturato?
Le sensazioni negative si accavallano e si riducono sostanzialmente a due. La prima è che i ritardi del governo, le carenze varie di liquidità generale (anche la domanda dei cittadini deve essere sostenuta) connessa alle regole di comportamento dettate dall’Inail (Istituto nazionale per gli infortuni sul lavoro) possono portare una sorta di autentica auto-serrata, di auto-lockdown che potrebbe cominciare in diverse zone fin dal 18 maggio, data fissata per l’inizio della “fase 2” che sembra poco preparato. Sarebbe un’avvisaglia pericolosa.
Ma questo fatto potrebbe essere la premessa a un secondo fatto più preoccupante: la morte di molte piccole aziende, di negozi, di tante realtà di vendita al dettaglio e di filiere di rilievo come quella turistica. Qui c’è il rischio non solo di uno spettro povertà per il prossimo autunno e poi per anni, ma di una protesta generalizzata che scompaginerebbe il tessuto sociale italiano.
Occorre porre un rimedio a tutto questo in tempi ravvicinati, evitando litigi e contrapposizioni consuete, che sono ormai diventate insopportabili.