Confesso di commentare il decreto approvato dal Consiglio dei ministri sui rimpatri senza aver letto il testo ufficiale, esclusivamente sulla base delle dichiarazioni dei ministri proponenti (Interno, Esteri e Giustizia). Se non ho compreso male il decreto si propone di introdurre tre novità:

– la definizione di un periodo certo, 4 mesi, per i tempi di riscontro delle richieste di protezione internazionale avanzate dagli immigrati irregolari;



– tende ad escludere in via di principio tale riconoscimento per gli immigrati irregolari provenienti da 12 paesi che non hanno conflitti interni e offrono garanzie di sicurezza e non discriminazione per i loro cittadini;

– inverte l’onere della prova mettendo in capo ai richiedenti di dimostrare l’ effettiva esistenza dei requisiti di protezione internazionale.



Con queste modalità il Governo conta di poter provvedere ai rimpatri anche con i paesi (8 sui 12 della lista) che non hanno sottoscritto le intese per il contrasto della migrazione irregolare e per il rimpatrio dei loro cittadini entrati illegalmente in Italia. In pratica una sorta di uovo di Colombo sulla materia. Provvedimenti che non erano passati nelle menti di nessuno dei numerosi governi precedenti.

Ma è davvero cosi? L’esigenza di accelerare i tempi e le modalità di riconoscimento e di espulsione è stata più volte oggetto di attenzione e di precedenti interventi normativi, a partire dalla Bossi Fini, della legge Maroni, e di recente nei decreti sicurezza proposti da Salvini e approvato dal Governo giallo-verde. Lo stesso ministro dell’Interno Minniti manifestò a suo tempo l’esigenza di intervenire sulla materia per introdurre procedure accelerate di verifica con una magistratura appositamente dedicata , come avviene per i minori stranieri non accompagnati.



Nel merito la Corte costituzionale è intervenuta più volte per cassare le norme che disponevano le espulsioni coatte degli irregolari ovvero per ristabilire il diritto di contraddittorio e di ricorso dei richiedenti verso i pronunciamenti di diniego delle commissioni preposte, sino al terzo grado di giudizio della magistratura.

Sul piano pratico, qualsiasi proposta di riforma organica della materia è sempre stata osteggiata dalla sinistra politica italiana e di buona parte degli organi di rappresentanza della magistratura. Non si comprende francamente come il decreto in questione possa aggirare tali ostacoli sulla base di una presunzione di provenienza da paesi “sicuri”. Requisito importante ma tutt’altro che esaustivo per le condizioni soggettive dei richiedenti e per il loro diritto di ricorrere contro i pronunciamenti negativi.

Quanto poi alle concrete possibilità di effettuare i rimpatri coatti verso i paesi che non hanno sottoscritto accordi in tal senso non è lecito sapere quali novità possano essere indotte dal decreto in questione, se non una generica volontà del Governo di esercitare una pressione sui paesi di origine reticenti a promuovere le intese in questione. Esattamente come avvenuto con i decreti sicurezza del precedente esecutivo.

Il fatto che nei tempi recenti buona parte degli sbarchi stia provenendo dalla Tunisia, Paese sottoscrittore di intese con l’ Italia e con altri Paesi Ue per il contrasto dell’immigrazione irregolare e i rimpatri, la dice lunga riguardo le difficoltà esistenti nel gestire la materia su un piano di cooperazione alternativo alle politiche di deterrenza per gli arrivi.

Su questi terreni l’improvvisazione può produrre un effetto boomerang rispetto ai desiderata. Fare la faccia feroce purtroppo non basta.