Un anno fa – il 6 settembre 2018 – i sindacati del comparto metalmeccanico e ArcelorMittal firmavano quell’importante accordo che dava inizio alla storia della nuova Ilva.

Il caso, non solo in virtù delle dimensioni dell’impresa (che vale l’1% del Pil italiano), ma anche in ragione di colpi di scena che non erano mancati nelle sue fasi conclusive, era diventato di grande attenzione: il neo ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio, fece comprensibilmente di tutto per intestarsi la riuscita dell’operazione e per strapparne i meriti a Carlo Calenda, che lo aveva preceduto al Mise e senza il quale di Ilva non saremmo nemmeno qui a parlare. Di Maio ebbe comunque il merito di portare a termine un’operazione che vedeva il più grande player della siderurgia mondiale avviare un intervento – industriale e ambientale – da quasi 5 miliardi di euro, metà dei quali destinati al recupero del territorio. Lo stesso sindaco della città di Taranto, Rinaldo Melucci, si esprimeva dicendo che si trattava di qualcosa che, per la città dei due mari, “non aveva precedenti”.



Al di là che vi erano, e vi sono tuttora, fazioni che vorrebbero la chiusura dell’impianto tarantino, nessuno si è mai spinto a mettere in dubbio la serietà di ArcelorMittal e del suo investimento per rilanciare l’Ilva.

Per questa ragione, in particolare, ha stupito non poco la rigidità con cui l’ex ministro dello Sviluppo economico, Luigi Di Maio appunto, si è impuntato per togliere la cosiddetta immunità penale. Come avevamo già scritto a suo tempo, nel momento del passaggio di Ilva ad ArcelorMittal, la mancata abrogazione dell’articolo 2 della legge 4 marzo 2015 n. 20 – “ai fini della valutazione delle condotte connesse all’attuazione dell’Aia e delle altre norme a tutela dell’ambiente, della salute e dell’incolumità pubblica, le condotte poste in essere non possono dar luogo a responsabilità penale o amministrativa del commissario straordinario” – aveva fatto arrabbiare molti interlocutori sul territorio.



Anche perché, al tempo della campagna elettorale per le politiche 2018, Di Maio si era preso l’impegno, poi non mantenuto, di far saltare il “salvacondotto”. È evidente, tuttavia, che nel momento dell’accordo con Mittal l’operazione difficilmente si sarebbe chiusa senza quella garanzia.

Poi, a giugno 2019, il colpo di scena: il decreto crescita veniva approvato e con esso l’eliminazione dello scudo penale per le società che operano nell’area ex-Ilva, limitando l’immunità (sull’attuazione del piano ambientale) al 6 settembre 2019 per proprietari e amministratori dello stabilimento tarantino.



Ecco perché il 6 settembre, un anno dopo, torna a essere giornata cruciale per la ex Ilva. E l’attuale crisi di governo certamente non facilitava la soluzione della faccenda. Tuttavia, un mese fa il governo approvava il decreto “lavoro e crisi aziendali” che, con la firma del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, è stato pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale.

Per quanto riguarda Ilva, il decreto circoscrive lo scudo penale alle sole operazioni di attuazione delle prescrizioni fissate dall’Autorizzazione integrata ambientale (Aia). La scadenza finale è il 2023, ma ogni reparto dell’area a caldo della fabbrica ha una sua data entro cui deve essere adeguata all’Aia. Viene così garantita l’immunità per eseguire i lavori nei limiti definiti dal crono-programma.

È cosa nota che la revoca dell’immunità penale è disciplinata come causa di risoluzione nel contratto che il governo italiano ha firmato con ArcelorMittal. Ancora una volta, per usare una metafora appropriata, si è scherzato col fuoco.

Quello di cui spesso non teniamo conto è che il signor Lakshmi Mittal, acquisendo Ilva, ne ha acquisito soprattutto il suo portafoglio clienti. Quello che produce in Italia, può organizzarsi per produrlo altrove. Sarebbe cosa buona evitare di farlo scappare dall’Italia.

Auguriamoci che ne tenga conto il nuovo titolare del Mise, Stefano Patuanelli.

Twitter: @sabella_thinkin

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