“Sapevamo benissimo che l’acqua in assenza di precipitazioni sarebbe stata scarsa. Abbiamo fatto tutto quello che potevamo per non farci trovare impreparati?” si chiede Meuccio Berselli, segretario generale dell’Autorità di bacino del fiume Po. E la sua risposta è negativa. La resilienza – la capacità di contrastare le situazioni avverse – non si improvvisa, dice Berselli al Sussidiario mentre sarebbe imminente un decreto del governo per fronteggiare la grave emergenza idrica che ha visto il Po ridurre la sua portata a Pontelagoscuro (Ferrara) da 300 a 161 metri cubi al secondo.



Secondo Berselli serve un commissario (il governo ci sta pensando), una strategia più ampia e soprattutto la facoltà di prendere le decisioni conseguenti, superando la “polverizzazione e la confusione di istituzioni e competenze che c’è in Italia”.

Partiamo da un titolo di giornale: “Caronte imperversa fino a martedì, poi cambia tutto: arrivano le piogge”. Forse la scampiamo anche questa volta.



Nemmeno per sogno, è proprio l’approccio sbagliato da superare. Dovremmo fare di tutto per adattarci con una maggiore velocità al cambiamento climatico, e come facciamo adesso non va bene.

Il 2022 è l’anno peggiore?

Sì, perché siamo partito con il grave handicap di una scarsità di precipitazioni nevose pari a -70%. Ma dal 2000 in poi, quello cui stiamo assistendo è successo nel 2003, 2006, 2007, 2012, 2017.

Cosa ci serve?

Una strategia ampia, fatta di una maggiore e più efficiente cooperazione tra i territori, basata sul principio di sussidiarietà. Serve un vero e proprio patto di fiume, un patto per il Po.



Come si arriva a questa situazione?

I laghi Maggiore, Como, Idro, Iseo e Garda hanno un ruolo fondamentale nel sostenere la portata del fiume, immettendovi 20 mld di metri cubi l’anno. Quest’acqua è però disponibile in modo differente rispetto al passato. O arrivano piogge calamitose che colpiscono le zone montane e pedemontane, oppure per lunghi periodi, fino a 120-130 giorni, in un grande bacino come quello del Po non piove. Con in più temperature più alte di 3-4 gradi rispetto al passato che incidono sull’evaporazione.

Anche il 2021 non è stato un anno fortunato. Perché la crisi non è stata così grave?

Perché lo Snow Water Equivalent, la neve caduta in quota che si scioglie, ha permesso di rinvasare i grandi laghi.

E se passiamo al fattore umano?

Il problema maggiore è la miopia delle comunità. Ognuno cura il proprio orticello: ho l’acqua, me la tengo e la uso come mi pare.

Secondo l’ultimo comunicato dell’Autorità di bacino del Po (29 giugno) serve una riduzione di prelievo del 20% sulle acque disponibili, ma la misura non è stata osservata. Di chi è la colpa?

Della polverizzazione e della confusione di istituzioni e competenze che c’è in Italia. Le basta guardare quanti siedono al tavolo di una conferenza di servizi e il problema diventa subito chiaro. In circostanze come queste o decide un commissario, oppure, se c’è un osservatorio, le decisioni prese vanno rispettate. Altrimenti siamo all’anarchia.

Ci può fare un esempio di cosa non funziona?

Ipotizziamo un soggetto pubblico o privato con una concessione che gli consente un prelievo di 100 metri cubi/sec. In situazioni di grave carenza come quella attuale questa disponibilità scende di fatto a 60 metri cubi/sec. A quel punto chi preleva non può rifiutarsi di osservarla dicendo che ha già avuto una riduzione del 40%, perché la disponibilità inferiore deve ridefinire l’ammontare del prelievo disponibile. La parte concessa al territorio serve allo Stato per sostenere la portata di valle, mitigare il problema del cuneo salino, garantire l’acqua idropotabile. Come si vede, serve una strategia più ampia.

Forse sono le conseguenze ad ampio spettro che sfuggono a chi preleva?

Eppure sono evidenti. Il mare è entrato nel letto del Po per 30,6 km e sta battendo tutti i record negativi. La salinizzazione mette a rischio interi ecosistemi, come quelli lagunari, anche sotto il profilo economico e produttivo. Sono territori che mantengono performance importanti, agricole e ittiche, ma solo con grande fatica.

È in arrivo un decreto del Governo con misure di contrasto alla scarsità di acqua, si parla di stato di emergenza e di istituzione di una figura commissariale. Lei è favorevole?

È assolutamente necessario e glielo dice chi ha il mandato in scadenza. La legge prevede che il Dipartimento di Protezione civile intervenga quando ci sono crisi che interessano l’approvvigionamento idropotabile, non l’agricoltura, che fa riferimento al proprio ministero oppure a concessioni e regole di ingaggio regionali. Che non sono sbagliate, ma si stanno rivelando inadeguate. Il commissario potrebbe finalmente prevedere una gestione unitaria per tutelare gli interessi di tutto il territorio di bacino, di tutta la comunità e non solo di una parte.

Ci dà qualche numero del bacino?

Nel distretto del Po ci sono 141 affluenti, 6.700 depuratori, 9 regioni coinvolte.

Come dovrebbe cambiare l’Autorità di bacino?

Se c’è un osservatorio delle crisi idriche, e l’osservatorio è coordinato dall’autorità di bacino distrettuale, coordinata a sua volta dal ministro della Transizione ecologica, si dia mandato al segretario generale di far rispettare le decisioni prese.

Cosa prevede il Pnrr?

Per il Po prevede un progetto di rinaturazione da 357 milioni di euro e questo è positivo, ma ci sono investimenti che non hanno avuto l’attenzione che meritavano, come il riutilizzo delle acque di depurazione. È assolutamente necessario. Va detto che il ministero settimana scorsa ha emesso un comunicato in cui prevede 600 milioni per il riuso delle acque di depurazione.

Da impiegare come?

Destinandole all’agricoltura e agli usi civili non potabili.

Vuol dire che sprechiamo molto, troppo.

Le reti idriche perdono il 40% dell’acqua che trasportano. In Italia grazie al superbonus abbiamo fatto efficientamento energetico, ma ogni volta che azioniamo lo sciacquone del wc buttiamo 15 litri di acqua dell’acquedotto. A questo scopo, dall’uso domestico fino al lavaggio auto, potremmo benissimo usare acqua rigenerata.

Dovremmo intervenire anche sull’agricoltura?

Dovremmo chiederci: è sostenibile l’agricoltura che abbiamo, con colture così tanto idroesigenti? Sia dal punto di vista zootecnico, quindi alimentare, sia da quello agronomico, credo che dovremmo assestare meglio il tiro.

Ad esempio?

Abbiamo usato il mais, che richiede grandi quantità d’acqua, per fare biomassa e quindi energia: siamo sicuri che sia la cosa giusta? A me non pare francamente sostenibile.

A proposito: quando una soluzione è sostenibile?

Quando consente di non perdere biodiversità e neppure reddito.

(Federico Ferraù)

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