Pil in crescita del 4,5% nel 2021, che sale al 4,8% nel 2022 per poi scendere nel biennio successivo a +2,6% e +1,8%; deficit/Pil, oggi all’11,8%, che potrebbe tornare sotto il 3% nel 2025; debito pubblico al 160% che calerà di 8 punti in 4 anni. E’ il quadro macroeconomico che delinea il Def firmato Mario Draghi e Daniele Franco, ministro dell’Economia.



Un quadro che assomiglia molto ai numeri stimati dall’ultimo Rapporto sull’economia italiana, realizzato dal centro studi EconomiaReale una settimana prima. E Mario Baldassarri, ex viceministro all’Economia e presidente di EconomiaReale, proprio alla luce di questo Rapporto valuta il nuovo Def, di cui apprezza una duplice correttezza: nella forma (“Per la prima volta in vent’anni il governo ha presentato il Def puntuale alla scadenza del 15 aprile”) e nei numeri (“Fino al 2024 il profilo di crescita è condivisibile”).



Ma proprio nell’orizzonte temporale del Documento di economia e finanza sta la sua debolezza, perché non tiene conto dell’impatto sulla crescita delle tre riforme (fisco, giustizia civile e pubblica amministrazione) che, da realizzare entro il 2022 pena perdere i fondi del Recovery plan, dispiegheranno tutti i loro effetti solo a partire dal 2024. L’obiettivo? Rendere stabile una crescita duratura del 3%.

Guardando ai numeri del Def approvato dal Consiglio dei ministri, come valuta il quadro macroeconomico dell’Italia?

Una premessa sul Def di Draghi e Franco è d’obbligo, perché noto due evidenti discontinuità con il passato.



Quali?

La prima è di forma, che è anche sostanza. Sono vent’anni che tutti i governi precedenti hanno presentato il Def con una o due settimane di ritardo e il testo definitivo disponibile nel sito del Mef quattro o cinque giorni dopo la sua approvazione.

Con Draghi e Franco?

Per la prima volta in vent’anni il governo ha presentato il Def puntuale alla scadenza del 15 aprile e la sera stessa il testo completo era accessibile a chiunque nel sito del ministero dell’Economia. E’ un aspetto formale, ma non va sottovalutato, perché denota la precisione e la correttezza nel rispettare le istituzioni.

E la seconda discontinuità?

E’ nel merito dei numeri. Dal 2000 in avanti ho sempre fatto l’analisi di tutti i Def di tutti i governi. Mettendoli in fila si può vedere come tutti fossero uguali e come tutti contenessero sempre lo stesso trucco contabile: si sovrastimavano palesemente la crescita economica e l’inflazione, quindi l’aumento del Pil nominale, sottostimando di fatto sia il deficit che il debito pubblico.

Trucco contabile che non si ritrova in questo Def?

Esatto.

Perché?

Fino al 2024 il profilo di crescita è condivisibile. C’è ovviamente il rimbalzo del 2021 e l’effetto dell’incorporazione dei fondi del Recovery plan, presupponendo che i progetti siano realizzati presto e bene, è più o meno uguale a quello stimato nel nostro Rapporto sull’economia italiana, pur partendo da un modello diverso. Il Def di Draghi, poi, è molto onesto nel mostrare che l’impulso derivante dall’utilizzo dei fondi Ue migliora le nostre condizioni fino al 2024, che è l’orizzonte temporale del Def, anche se la disoccupazione continua a essere elevata attorno al 9% e soprattutto il rapporto debito/Pil scende dal 160% al 152,7%.

Un livello preoccupante?

Finché la Bce compra i titoli, finché i mercati finanziari sono invasi dalla liquidità, finché i tassi di interesse si mantengono sostanzialmente poco sopra lo 0%, questa situazione può non essere preoccupante. Ma da qui al 2024 queste condizioni rischiano di cambiare, come evidenziato nello scenario di rischio del Def.

Va tenuto conto anche di come potrebbe cambiare il Patto di stabilità, oggi temporaneamente sospeso, giusto?

Patto e parametri di Maastricht andranno ridiscussi. Certo, non rivedremo la vecchia austerità, però tornerà qualche regola, speriamo la più corretta possibile, di bilancio pubblico. E noi dovremmo sapere già oggi che i fondi europei ci aiuteranno molto se saremo capaci di spenderli presto e bene, ma non risolvono il problema. Lo riconosce lo stesso governo.

Cosa manca allora nel Def?

Mancano le riforme. Ricordiamoci che la Ue condiziona l’accesso ai fondi del Recovery non solo allo stato di avanzamento dei progetti, ma anche alla realizzazione di tre grandi riforme strutturali: fisco, giustizia civile e pubblica amministrazione.

Dove sta il nodo?

Queste tre riforme vanno realizzate entro il 2022, ma il loro effetto strutturale sulla crescita potenziale si dispiegherà solo dopo il 2024, appunto quando, esaurito l’impulso del Recovery, la crescita si ammoscia.

Il vostro Rapporto sull’economia italiana guarda “alto e lontano”, spingendosi fino al 2028. Che cosa si vede a quell’orizzonte?

Che la crescita via via si affievolisce e nel 2028 torna al +0,2%. Anche perché il Recovery fund è uno strumento una tantum, invece andrebbe trasformato in un bilancio ordinario. E’ naturale quindi che il suo impatto sia destinato a esaurirsi.

Cosa significa per l’Italia realizzare le riforme strutturali?

Significa passare il testimone della crescita dal Recovery fund, quando il suo abbrivio si ridurrà, agli effetti generati dalle tre riforme per stabilizzare la crescita, da qui al 2028, attorno al 3%. Rispettando queste condizioni, nel 2028 torneremmo a una disoccupazione intorno al 6,5%, dopo aver creato milioni di posti di lavoro, e soprattutto a un rapporto debito/Pil che scenderebbe dal 152% al 115%: un calo del 5% all’anno per otto anni consecutivi.

E’ in arrivo anche il Pnrr. Rispetto alla prima versione del governo Conte, che errori bisognerebbe evitare?

La versione del governo Conte non aveva nessun errore, semplicemente perché non esisteva il piano. C’erano generiche indicazioni di assegnazioni di numeri a generici capitoli di spesa. Ma quello non è un piano, perché l’Europa per Pnrr intende progetti con nomi e cognomi.

L’Italia è ricca di opere incompiute. A tal proposito il governo Draghi ha nominato 57 commissari per cantierare 57 grandi opere pregresse ancora bloccate e ha approvato un fondo pluriennale per finanziare infrastrutture che resterebbero fuori dal Recovery plan. Dagli investimenti pubblici può arrivare una buona spinta alla crescita?

Premesso che sarebbe stato meglio nominare i commissari un anno fa, il fondo pluriennale è un atto sacrosanto, perché non di solo Recovey fund si nutre la crescita. Dobbiamo metterci anche soldi nostri. La spinta alla crescita deriva da un forte impulso agli investimenti pubblici, indipendentemente da dove arrivano i fondi. Se si lasciano le opere incompiute, non si ha alcun effetto strutturale sulla produttività totale dei fattori. L’Italia è piena di prime pietre, di opere incompiute: tutti quei soldi spesi sono stati praticamente buttati al vento.

Accennava prima all’occupazione. La crisi legata al Covid ha lasciato cicatrici profonde sul mercato del lavoro. Che cosa bisognerebbe fare?

Al di là delle chiacchiere, l’occupazione cresce se il Pil cresce del 3% all’anno per 10 anni consecutivi. Dobbiamo essere consapevoli che, nonostante il blocco dei licenziamenti, abbiamo perso un milione di posti di lavoro e ci ritroviamo con milioni di persone in cassa integrazione. Da qui a pochi mesi dovremo gestire questa enorme transizione di emergenza.

Come uscirne?

Occorre una riforma vera, strutturale degli ammortizzatori sociali, come ha ricordato fin dall’inizio lo stesso Draghi. La proroga del blocco dei licenziamenti e della cassa integrazione serve solo a prendere tempo per fare finalmente delle serie politiche attive del lavoro.

Torniamo alle tre riforme strutturali, partendo dal fisco: cosa serve all’Italia?

Un taglio di 60 miliardi, 40 di Irpef delle famiglie e 20 di cuneo fiscale e contributivo o di azzeramento dell’Irap delle imprese. Una riduzione minore non serve a nulla. A una condizione: questo sgravio di 60 miliardi va totalmente coperto con il bilancio pubblico italiano, non possiamo bussare all’Europa per farci finanziare questo taglio fiscale. Ne usciremmo screditati.

Come farlo allora?

Proponendo due scambi: tagli per 40 miliardi alle tax expenditures e tagli per 20 miliardi dei fondi perduti concessi alle imprese. In pratica, una riforma fiscale a saldo zero. Tutto, questo, poi, accompagnato da una seria lotta all’evasione, che implichi l’incrocio delle banche dati, visto che la nostra Anagrafe tributaria è tra le più efficienti del mondo, se vuole, perché può incrociare tutte le banche dati di qualunque soggetto, dai conti correnti alle carte di credito, dalle utenze domestiche al patrimonio posseduto.

E una patrimoniale?

E’ ridicolo parlare di imposta patrimoniale. E’ serio parlare di incrocio dei dati in modo da far emergere i redditi nascosti.

Come e quanto riforma della giustizia civile e della pubblica amministrazione possono aiutare la crescita potenziale?

Quasi impossibile stimarlo, però da tempo si dice che queste riforme potrebbero aumentare il potenziale del Pil dell’1% all’anno. Per prudenza ho stimato un incremento dello 0,5% a partire dal 2023, che va a regime dell’1% negli anni successivi.

Con le riaperture in arrivo, nel secondo semestre avremo un rimbalzo del Pil a molla o graduale?

Noi dobbiamo puntare su una ripresa che sia duratura. Le riaperture sono fondamentali, ma devono andare in parallelo con la prudenza, perché se apriamo per poi richiudere l’effetto sull’economia sarà ancora peggiore.

Sul piatto ci sono 40 miliardi di nuovi ristori. Rispetto ai decreti del governo Conte, che hanno distribuito briciole a pioggia e con grandi ritardi, c’è un cambio di passo?

I ristori del governo Conte sono stati delle prese in giro per quantità irrisorie e tempi biblici. Non avendo sortito effetti di sostegno vero, sono stati paradossalmente soldi sprecati. Il governo Draghi, dopo aver usato i 32 miliardi di scostamento già previsti, sta pensando a un nuovo decreto. Dovendo giustamente allargare la platea, eliminando i codici Ateco, ha fatto sì i calcoli giusti, prendendo il fatturato di tutto il 2020 rispetto a quello di tutto il 2019 – cosa che andava fatta fin dall’inizio –, ma il ristoro del 60% a scalare viene applicato non alla perdita annua del fatturato, ma alla media mensile.

Quindi?

Dare il 60% della media mensile della perdita dell’anno è dare il 60% diviso 12, cioè il 5% sulla perdita totale. E’ opportuno che nel nuovo decreto, tra il 5% dato dall’Italia e il 50% dato della Germania, si possa ottenere un livello più decente.

A settembre che cosa dobbiamo aspettarci, al netto dell’andamento dell’epidemia e considerando che nel frattempo proseguirà la campagna vaccinale?

Il problema della ripresa dell’attività è che sia prudente, graduale e crescente. Solo così potrà essere stabile. Confido, quindi, in ciò che ha dichiarato Draghi: è un rischio ragionato, cioè sotto controllo. E vorrei far notare che ha ripreso le stesse parole utilizzate quando pronunciò il famoso “whatever it takes”…

(Marco Biscella)

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